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    IDEE - PENSIERO EBRAICO

    “Finisca l’anno con le sue maledizioni”

    Le festività autunnali dello scorso anno hanno profondamente scosso le anime di tutti noi. La mattina del 7 ottobre, durante Sheminì ‘atzeret, le prime frammentarie notizie iniziavano a delineare un quadro orribile, non ancora chiaro nei suoi agghiaccianti particolari, ma che non presagiva nulla di buono. Nei batè ha-keneset fuori da Israele, forse perché non si aveva piena coscienza della portata di quanto stesse avvenendo, si affacciavano delle domande nuove per noi, ma che i nostri antenati avevano affrontato tante volte: se la realtà che mi circonda è avvilente e desolante, se il mio mondo sta bruciando e l’apatia o la disperazione sembrano volermi vincere, come posso gioire?
    Penso che chiunque sia venuto al Bet ha-keneset lo scorso Sheminì ‘atzeret e Simchat Torah si sia trovato in un dubbio carico di terribile angoscia. Che fare? Gioire? Non gioire? Gioire a metà? Non esiste una risposta giusta a questa domanda, che in realtà ci stavamo già ponendo prima del 7 ottobre, per eventi più lontani che comunque hanno lasciato delle ferite. L’anno scorso avevo scritto un articolo su due anniversari speciali: l’ottantesimo del 16 ottobre, uno Shabbat durante Sukkot, e il cinquantesimo della guerra del Kippur. Poi è arrivato il 7 ottobre. Poi è arrivata quella sensazione orribile di impotenza per il destino degli ostaggi, di apprensione per i soldati che ogni giorno rischiano la vita, di angoscia di fronte all’incomprensione e a volte all’ostilità del mondo.
    Quest’anno è trascorso così, angosciosamente. Ne inizia un altro, ancora in guerra, ancora minacciati. Tikhlè shanà weqileloteah, finisca l’anno con le sue maledizioni. Quest’anno queste parole che recitiamo all’inizio della tefillà di ‘arvit di Rosh Hashanà, assumeranno un senso diverso e le pronunceremo con una diversa convinzione. Sheminì ‘atzeret, già per gli ebrei romani segnato dall’attentato al Tempio Maggiore e dall’assassinio di Stefano Gaj Tachè z”l, avrà un nuovo terribile significato con il quale fare i conti. Come verrà ricordato il 7 ottobre? È presto per dirlo; in fondo la stessa Shoah non ha trovato una collocazione puntuale e condivisa nel calendario.
    Tuttavia, nuovamente dovremo fare i conti con la dissonanza tra le nostre sensazioni e la cronaca. Le festività di Tishri evocano una dietro l’altra una serie di idee fondamentali, costitutive della nostra esperienza spirituale, sia a livello individuale che collettivo. Questo tour de force, in un periodo di tempo tutto sommato limitato, ci conduce in tante differenti regioni della nostra psiche e della nostra vita. Idee potenti e fortemente evocative: l’eclissi della malvagità e l’affermazione incontrastata del regno divino, la necessità del ravvedimento individuale e collettivo, il paterno perdono celeste, la caducità delle nostre esistenze, la protezione di H., la Torah come fonte di gioia e di senso per le nostre vite. Questo percorso ci consente di affrontare l’anno e le sue sfide con slancio e rinnovata consapevolezza.
    Nel momento in cui scrivo, come spesso è avvenuto nell’ultimo anno, la situazione è incerta, con densi nuvoloni all’orizzonte. Durante i prossimi mo’adim, se non vi saranno svolte nel senso che tutti ci auguriamo, dovremo intensificare le nostre preghiere affinché gli ostaggi tornino a casa sani e salvi, per l’incolumità dei soldati e della popolazione civile, e per poter tornare a vivere in pace. Se uno degli elementi della forza di Israele risiede nella sua bocca, è certo che nei momenti di sofferenza collettiva la preghiera assume un ruolo cruciale. Che H. possa ascoltare le nostre preghiere e proteggere il popolo ebraico, in Israele e in Diaspora.

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