Ci sono due virus che chiedono agli italiani di tenere alta la guardia. Il primo è il Coronavirus e per il momento non è una minaccia effettiva, anche se i rischi sono reali e l’allerta doveroso. Il secondo è il virus dell’intolleranza, pericolosissimo anche perché per sua natura camaleontico e cangiante, capace di mutare per adattarsi alle circostanze e così nascosto da colpire in piena libertà. Diversamente dal Coronavirus è già tra di noi. Ha attecchito facilmente su un terreno fertile e minaccia di dilagare in un organismo che è ancora sano ma fiaccato da paure e insicurezze di ogni tipo.
I segnali sono ancora timidi ma inequivocabili. A Torino una ragazza cinese è stata fatta scendere a forza da un autobus. Per il solo fatto di essere cinese era considerata dai passeggeri pericolosa, potenzialmente infettiva. A Frosinone gli studenti cinesi dell’Istituto di Belle Arti sono stati aggrediti a sassate dopo che una loro connazionale era stata portata allo Spallanzani per accertamenti, che hanno peraltro già dato esito negativo. Per ora sono casi limite, ma di atteggiamenti del genere, sia pur meno estremi, se ne contano ormai ogni giorno a decine nelle città italiane. I locali cinesi sono deserti: non si sa mai. L’ingresso di un cinese nei locali pubblici è accolto con sguardi in tralice e sbuffi, con maglioni tirati su a coprire naso e bocca, con rapide prese di distanza. A Roma un bar centralissimo, in una delle piazze più turistiche del mondo, alla Fontana di Trevi, ha pensato bene di rinverdire una delle pratiche più infami di un passato evidentemente insepolto. Un cartello laconico quanto odioso: “E’ vietato l’accesso a tutte le persone provenienti dalla Cina. Ci scusiamo per il disagio”.
I discorsi correnti non sono da meno. In un’inchiesta televisiva andata in onda un paio di sere fa la frase più comunemente ripetuta, scuotendo testa e spalle oppure allargando le braccia era: “Purtroppo stiamo messi male”. L’allusione, palese e per nulla nascosta, era all’esagerato numero di cinesi che circolano in Italia. Difficile difendersi quando gli untori sono troppi. Stiamo messi male, malissimo, con tutti questi cinesi che arrivano a tossire nelle nostre strade. I politici, spesso soffiano sul fuoco. I governatori della Lega chiedono che gli studenti di ritorno dalla Cina non rientrino a scuola per due settimane, in una sorta di “quarantena-fai-da-te”, senza consultare le autorità mediche. L’ex ministro La Russa, oggi dirigente di Fratelli d’Italia, si abbandona a celie vergognose postando su Fb il suo amichevole “consiglio”: “Per evitare rischi invece di stringere la mano fate il saluto romano”.
La parentela tra il discorso del razzismo e quello della clinica e della profilassi è antico e noto. Una sirena d’allarme dovrebbe suonare a distesa ogni volta che un gruppo nazionale, o etnico o religioso viene accostato a virus e bacilli, viene sospettato di diffonderli e veicolarli nel nostro mondo pulito e sano. Il passo che porta poi a indicare quei gruppi, non più come potenziali portatori di malattie, ma come essi stessi virus e bacilli da allontanare o da estirpare è brevissimo. Quel passo è già stato mosso in passato.
C’è davvero, in Italia come ovunque nel mondo, qualche sciagurato che crede realmente nel razzismo biologico e nella gerarchia tra “razze”. Si tratta però di minoranze infime. Molti di più sono quelli che si abbandonano ai “discorsi d’odio” mossi da un rancore e da un risentimento in cerca di qualcuno su cui appuntarsi. Eppure il razzismo diventa davvero minaccioso e dilagante solo quando qualcuno di diverso per colore della pelle, identità culturale o religiosa, viene identificato come minaccia per la salute pubblica. Come un virus, appunto. Questo morbo dobbiamo saperlo riconoscere, identificare, isolare e circoscrivere subito. Prima che diventi una pandemia.