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    “Un respiro in più” – la bioetica secondo Vasco Rossi

    A volte i poeti e i cantautori esprimono in poche parole quanto altri direbbero in dotte e lunghe disquisizioni. 

    Uno dei problemi principali della bioetica è arrivare a una chiara definizione della fine della vita. Da questa determinazione può dipendere, infatti, la vita di altre persone. La questione è il trapianto di organi: stabilire che il decesso sia avvenuto è un prerequisito per effettuare l’espianto di alcuni organi da destinare al trapianto in pazienti che ne abbiano bisogno (fra le eccezioni, l’espianto di rene che può essere eseguito anche da vivo). 

    L’aiuto a chi soffre è un principio fondamentale dell’ebraismo e la donazione d’organi è considerata un atto di grande solidarietà e di alto valore etico. Non ci sono quindi obiezioni, in generale, alla donazione di organi, se essi sono prelevati dopo che la morte sia stata accertata in modo assoluto. Per alcuni tipi di trapianti, tuttavia, come quelli di cuore e fegato, il prelievo deve essere eseguito a cuore battente. E qui sorge il problema, perché per molte autorità rabbiniche il cuore che batte è considerato un’indicazione che la persona è ancora viva. Eseguire un prelievo del cuore o del fegato equivarrebbe, in questo caso, a un omicidio. Questa era, in effetti, l’opinione prevalente (non solo ebraica) alla fine degli anni ’60 del XX secolo, quando il trapianto di cuore era ritenuto una sorta di duplice omicidio, sia del donatore (perché il prelievo del cuore ne causava la morte immediata) sia del ricevente (perché per le metodiche dell’epoca, non ancora perfezionate, il ricevente sopravviveva assai poco al trapianto, spesso meno di quanto sarebbe vissuto senza il trapianto). Ma con il progredire delle tecniche operatorie e del trattamento anti-rigetto si fece sentire la necessità di rivedere questa posizione, con lo scopo di considerare la morte cerebrale come definizione di fine della vita e così permettere i trapianti di cuore.

    Il dilemma cuore/cervello non è solo filosofico o accademico. È letteralmente una questione di vita o di morte. Se si dice che finché il cuore batte un uomo o una donna sono vivi, è preclusa la possibilità di prelevarne il cuore, perché ciò equivarrebbe a uccidere il donatore. Se viceversa diciamo che la vita dipende dal cervello, una volta sopraggiunta la morte cerebrale – anche a cuore battente –, il cuore può essere prelevato e trapiantato in qualcun altro. Di fronte si hanno due ragioni contrapposte e incompatibili l’una con l’altra: la ragione del donatore, che si rischierebbe di uccidere se non fosse veramente morto, e quella del potenziale ricevente, che non potrebbe essere salvato o curato se non venisse effettuato il trapianto. Uccidere è uno dei divieti più gravi, ma anche salvare una vita o curare un malato è una mitzvà. Se si è troppo rigorosi in un caso, si rischia di non esserlo nell’altro.

    Attraverso una rinnovata analisi delle fonti talmudiche, il rabbinato centrale d’Israele concluse, nel 1986, che l’assenza della respirazione, prima ancora che l’arresto cardiaco, può essere considerata un segno di avvenuto decesso. Di conseguenza la morte cerebrale, che provoca la cessazione della respirazione pur non influendo sul battito del cuore, è divenuta – secondo questa opinione, peraltro non condivisa da tutti i rabbini – un criterio per accertare la morte e, quindi, per permettere il prelievo del cuore e di altri organi. 

    Nel maggio 2000, l’Assemblea dei rabbini d’Italia ha deliberato a maggioranza (ma non all’unanimità) di seguire l’orientamento del rabbinato centrale d’Israele. La morte cerebrale è quindi ritenuta sufficiente per la determinazione legale della morte; tuttavia, i criteri stabiliti dalle attuali disposizioni legislative italiane per l’accertamento della morte cerebrale sono meno rigorosi di quelli stabiliti dalle direttive del rabbinato d’Israele (a cui il rabbinato italiano ha fatto riferimento). Gli ebrei italiani sono stati pertanto invitati dall’Assemblea rabbinica italiana a condizionare il proprio assenso per la donazione di organi all’accertamento del decesso secondo le modalità tecniche indicate dall’Assemblea stessa e comunicate agli organi competenti del Ministero della Sanità, in aggiunta ai criteri stabiliti dalle leggi italiane vigenti.

    In conclusione, fra cuore e cervello prevale il cervello, ossia la fonte del respiro. Vasco Rossi, nell’ultimo album “Siamo qui”, l’ha espresso molto efficacemente nella canzone “Un respiro in più”. Così dicono le parole della canzone: “Quando avrai realizzato che vivere è soltanto un respiro in più…”. Ecco, il respiro è vita, l’assenza di respiro è assenza di vita. Il cuore può anche continuare a battere, ma se non c’è respiro non c’è vita.

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