Mai visto un Nanni Moretti cosi serio come nel suo nuovo film, presentato al Festival di Cannes. dal titolo “Tre piani”. Ma attenzione dico serio e non serioso. “Tre piani” è il film di Moretti in cui non si sorride mai. E vista la predisposizione dell’autore di “Bianca” e “Habemus Papam” per l’ironia, questa è un’assoluta novità. E non è la sola.
In “Tre piani”, tratto dal romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, di cui cambia l’ambientazione spostandola da Tel Aviv a Roma, Moretti recupera l’universalità del testo attraverso tre storie che si sviluppano parallelamente all’interno di un condominio: due coniugi non giovanissimi il cui figlio, rientrando una sera in macchina ubriaco, investe una donna e l’uccide; una moglie sola, perché suo marito è sempre in viaggio per lavoro e infine una coppia con una bambina, che viene spesso lasciata con gli anziani vicini fino quando il marito si (auto) convince che la bambina abbia subito violenza. Tre storie in cui si intrecciano sentimenti, ansie, paure (anche per la morte) e disperazioni ma soprattutto tre storie in cui si ha la sensazione che il dolore (e non solo quello dei personaggi) ci ha veramente travolti. Un dolore che diventa anche il dolore “della visione” in un film che, alla Fassbinder, il grigiore della pellicola nasce dalla cupezza dei personaggi, decisa sia dal regista che dall’autore del testo originale.
“Tre piani” si muove a più piani, e passatemi la tautologia, piani in cui la morale diventa ipocrisia, la follia può essere una scelta di vita e infine la consapevolezza che né il benessere, né la cultura, qualsiasi cosa voglia dire questa parola, possano illuminare il buio, nell’atrio (del palazzo) e nemmeno quello dell’esistenza.
Grande gioco di attori capeggiati dallo stesso Moretti nella parte più sofferta della sua carriera, Margherita Buy, un inedito Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini e Alba Roarwacher che riescono a tratteggiare dei personaggi “umani, troppo umani”.