Le nostre case saranno illuminate dalle luci della Channukkià quando, finalmente, The Fabelmans di Steven Spielberg sarà nelle sale italiane. È un dettaglio, ma visto che è proprio una Channukkià accesa ad accoglierci a casa Fabelman, alias Spielberg, è naturale pensarci mentre vediamo il film, soprattutto perché di fatto Steven Spielberg ci racconta di aver scoperto il cinema grazie ad un regalo di Channukkà. The Fabelmans è stato definito il ritratto totale del genio Spielberg, del suo cinema, della famiglia, dell’infanzia, del talento. E come con ogni sua opera, c’è chi trova un po’ di sé, una grande nostalgia dell’infanzia, della celluloide e anche di E.T. Ma lasciamo stare gli alieni, i dinosauri, gli incontri ravvicinati che tanto amiamo e con i quali siamo cresciuti. Rinunciamo per un attimo ad elencare tutti i riferimenti autobiografici per far tornare la figura intera di Steven Spielberg nelle due ore e mezza del magnifico The Fabelmans. D’altra parte è proprio Spielberg, e non è da tutti, a lasciare dichiaratamente la libertà al pubblico e alla critica di vedere ciò che vogliono nelle sue opere. Spesso, come ha detto più volte, è lui stesso a non voler interpretare quanto un fatto, un ricordo, un film del passato, abbiano influenzato il suo cinema. Dunque sospendiamo temporaneamente il tentativo di inanellare ogni singolo fotogramma del film in una sequenza di temi o storie di vita vissuta. Limitiamoci a ciò che vediamo e ad alcuni dettagli significativi. Senza pretesa alcuna di essere esaustivi.
The Fabelmans è la storia di un bambino di grande talento che si innamora del cinema. Il piccolo Sam, l’alter ego di Steven Spielberg, scopre il cinema grazie ad un trenino elettrico che gli viene regalato per Channukkà. In un montaggio alternato c’è l’accensione degli otto lumi che corrispondono ai singoli vagoni regalati a Sam dai suoi genitori per ogni sera di festa. Lui si diverte a riprendere il treno con la cinepresa mentre lo fa deragliare, e così scopre l’amore per il cinema, guardando sul palmo delle mani la luce delle immagini in movimento che arrivano dal proiettore e cercando di affrontare quello stupore e la paura bloccante che aveva provato in sala vedendo “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. DeMille.
Declinata in tutte le sue forme e i suoi effetti, è la luce a governare la scena di The Fabelmans. Ed è la luce che illumina il cammino di Sam. La luce del proiettore che gli fa scoprire sullo schermo la magia del cinema, e che gli fa vedere il suo primo girato proiettato sulle sue mani, o quella che gli illumina il viso mentre lavora in moviola, e ancora la luce dei fari di un’automobile usati come lampade per la scena.
Quando Sam cresce, ormai ragazzino, capisce che il cinema non è solo manipolazione della realtà, ma che a lui serve anche per svelarla. Ciò che fa la differenza adesso è che luce e celluloide insieme possono rivelargli una verità, metterlo davanti al dolore, a cose che possono cambiare per sempre la sua vita. E così avviene quando Sam, rivedendo un filmato girato durante un’occasione famigliare, scopre una verità fino ad allora invisibile, eppure drammaticamente evidente in moviola. E mentre ricompone i pezzetti di pellicola appiccicati con lo scotch sulla sua scrivania realizza che la sua famiglia non è unita e felice come sembra. Siamo di fronte quindi ad un percorso di formazione di un ragazzino che scopre il dolore con una cinepresa e affronta la tempesta che si abbatte sulla sua famiglia, sulle persone che ama di più. Persone divise, anche sulla passione di Sam: mentre è la madre a spingerlo verso la cinepresa, il padre pensa che sia un gioco, un hobby, dal quale prima o poi il figlio si sarebbe distratto. Ma il cinema Sam forse lo ama ancor di più della famiglia. Glielo fa notare il vecchio, ammaccato e anche apparentemente un po’ inquietante, prozio Boris che in un’apparizione, poco più di un cameo, lo fa ragionare a suon di parole e gesti su che posto avrebbe occupato il cinema nella sua vita. E lo zio Boris aveva ragione… Tant’è che quando Sam cresce, e crescono assieme a lui i dolori e le gioie, la sua cinepresa si afferma come strumento per affrontare la vita, per comprendere il mondo, per consolare sua madre, o per piccole vendette contro quei compagni di scuola che lo insultano, anche in quanto ebreo. È la cinepresa che gli mostra l’orizzonte, che gli permette di aggiustare il punto di vista, la prospettiva con la quale vede le cose. E la molla del genio in The Fabelmans è proprio la luce della Channukkià.