È la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943. Gli alleati sono sbarcati in Sicilia e sono entrati a Palermo, Roma è stata bombardata il 19 a San Lorenzo. In una drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo, Mussolini venne messo in minoranza e nel pomeriggio del 25, dopo aver incontrato il re ed essere stato informato del nome del suo successore, il maresciallo Pietro Badoglio, viene arrestato. La gente si riversa in piazza, pensa erroneamente che la fine della guerra sia dietro l’angolo. Pochi danno importanza al proclama che ribadisce la continuazione del conflitto accanto all’alleato tedesco. Anche gli ebrei della Capitale, colpiti dalle leggi razziali del 1938, guardano dopo anni con ottimismo al futuro.
I tedeschi sono ancora alleati e fino a quel momento nessuno li ha toccati. A Berlino, però, non si fidano della fedeltà italiana e iniziano a guardare con sospetto la situazione nella penisola. Seguono mesi drammatici, fino all’armistizio dell’8 settembre e alla deportazione del 16 ottobre, mesi in cui se si fosse agito diversamente, si sarebbero potute salvare molte vite. Tutto è scritto in un saggio di Gabriella Yael Franzone, coordinatrice del Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma, “La legislazione riparatoria e lo stato giuridico degli ebrei nell’Italia repubblicana. Note sull’abrogazione delle norme antiebraiche”.
Nei mesi successivi al crollo del fascismo, a Roma non accade nulla. Soltanto in Sicilia, arriva un primo testo che mira a eliminare le leggi della vergogna, che viene pubblicato sulla Gazzetta n. 1 del governo militare alleato dei territori occupati. Si tratta del proclama n. 7 che abroga qualsiasi legge operante discriminazione contro qualsiasi persona per motivi legati a razza, colore della pelle, fede.
Nei giorni successivi al 25 luglio, il governo Badoglio procede all’abrogazione di buona parte della legislazione fascista, ma nei 45 giorni fino all’8 settembre non viene presa nessuna misura significativa in favore degli ebrei per limitare i danni fatti o per arginare i rischi che si potevano prospettare. “Viene lasciata persino in vita la stragrande parte delle norme antiebraiche – racconta Gabriella Yael Franzone – e con essa persino la Direzione generale della demografia e la razza, la famigerata “Demorazza” istituita presso il Ministero dell’Interno. Presidente del tribunale della razza era Gaetano Azzariti, che viene nominato Ministro della Giustizia proprio del primo governo Badoglio e poi, dal 1957 al 1961, Presidente della Corte costituzionale della Repubblica: una continuità di apparato che desta perplessità”.
Non manca poi l’intromissione della chiesa con la figura del gesuita Piero Tacchi Venturi che nell’agosto 1943 chiede al governo Badoglio il riconoscimento dei matrimoni misti avvenuti dopo l’ottobre del ’38, fino allora considerati illegittimi. Padre Tacchi Venturi sottolinea che nella legislazione razziale ci sono misure anche meritevoli di conferma “secondo i principi e le tradizioni della chiesa cattolica”.
“La questione della cancellazione delle registrazioni anagrafiche degli ebrei presso le questure e i comuni non viene minimamente affrontata da Badoglio. Pietro Calamandrei (fondatore del partito d’Azione ndr) nel suo diario a inizio agosto ’43 si pone il problema – spiega Gabriella Yael Franzone. “Calamandrei ritiene che le leggi antiebraiche, ingiuste e vergognose, vadano abrogate anche solo per la loro immoralità; ma annota che nessuno parla, in quel momento, di una loro abrogazione, né – men che meno – si attiva per attuarla. Calamandrei ne trae la conclusione che molti di coloro che apparentemente si rallegravano della caduta del fascismo, in realtà fossero rimasti fascisti, filofascisti o filonazisti. Pochissimi, dopo il 25 luglio chiedono apertamente l’eliminazione della normativa razzista; i soli a farlo sono due filosofi, Antonio Banfi e Guido De Ruggiero, e lo storico del diritto Vincenzo Arangio Ruiz”.
Arriviamo al 16 ottobre e alle conseguenze della mancata abrogazione. “Al momento in cui si dovette organizzare la deportazione degli ebrei si avevano liste, elenchi tratti dalle dichiarazioni di razza presso il ministero dell’interno, presso le questure e le prefetture. E questo agevolò il trasferimento. Gli studi effettuati sembrano confermare l’ipotesi che in realtà i nazisti abbiamo utilizzato la documentazione del ministero dell’Interno: gli ebrei che avevano cambiato domicilio e lo avevano comunicato – perché obbligati a farlo dalla normativa vigente – alla Pubblica amministrazione, ma non anche agli uffici della Comunità ebraica, sono stati infatti prelevati dai nazisti al loro nuovo indirizzo e non a quello che sarebbe risultato dagli elenchi comunitari”.