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    Come cambia la Sukkà: uno spazio effimero nella contemporaneità

    Alcune immagini che arrivano dai secoli passati restituiscono il carattere familiare di Sukkot e soprattutto del precetto di vivere nella Sukkà (capanna) durante questo periodo di festa. La prima è del noto incisore francese Bernard Picart che illustrò una serie di volumi dedicati alle tradizioni religiose dei popoli del mondo (Cérémonies et coutumes religieuses de tous les peuples du monde, 1723-43) dedicando ventitré tavole alle tradizioni degli ebrei olandesi. La famiglia portoghese di Amsterdam è riunita intorno al tavolo di una Sukkà, dove il tetto prende le forme di una cupola, ed è riccamente decorata tanto da sembrare un interno borghese. Uno spirito non dissimile si trova nel dipinto ‘Sukkot’ (1867) di Moritz Daniel Oppenheim, considerato il primo artista ebreo dell’era moderna. Realizzato sui toni del grigio (con la tecnica chiamata “grisaille” che permetteva una facile riproduzione) presenta alcuni tratti ironici, come un’avvenente cameriera che porta una zuppa fumante, un gatto e dei bambini curiosi che osservano la scena. Un modo che sicuramente poteva rendere più accessibile questa tradizione a un pubblico non ebraico.

     

    La Sukkà è però un’architettura effimera che segue delle regole ben precise sia nelle dimensioni che nella tipologia di struttura (numero di pareti, l’osservazione del cielo dal tetto, l’utilizzo di elementi naturali…) e, ovviamente, richiede di essere costruita all’aperto. È quindi nel suo aspetto tridimensionale che emergono alcuni esempi curiosi e che, anche in tempi recenti, hanno stuzzicano l’ingegno di architetti e designer. Tra gli esempi storici più famosi va ricordata la Sukkà in legno fatta realizzare nell’Ottocento dalla famiglia Deller in Germania (ora all’Israel Museum di Gerusalemme), dipinta con scene tratte da incisioni coeve su Gerusalemme e vita ebraica in cui si possono riconoscere anche i committenti e che rappresenta un pezzo d’arte a tutti gli effetti.

    Da Washington, a New York negli ultimi anni sono stati dedicati alla Sukkà diversi concorsi in cui i progettisti sono stati chiamati a ripensare questo spazio con linguaggi e forme nuove. Proprio in questi giorni è stato inaugurato a Princeton il ‘Sukkah Village’, un festival che presenta undici tipologie diverse (www.sukkahvillage.com/sukkah-designs) posizionate in altrettanti spazi della città. Si va da quella piegata come un origami dello studio Joshua Zinder Architecture + Design a quella di Kss Architects che invece riflette sul carattere conviviale dello spazio e sulla possibilità di utilizzare le pareti come contenitori per conservare cibi, piante e oggetti. Questa manifestazione ha anche un carattere sociale che si ricollega all’aspetto nomade degli ebrei nel deserto. Alla fine di Sukkot queste strutture saranno messe all’asta e il ricavato sarà devoluto per progetti legati all’aiuto di senzatetto e alla realizzazione di alloggi a prezzi accessibili.

     

    Però nelle abitazioni contemporanee non tutti hanno possibilità di spazio all’aperto ed è per questo che tra le più originali costruite è balzata alla cronaca quella di Daniel Toretsky, un architetto residente a New York che ha progettato la sua “minuscola Sukkà periscopica” (https://www.tsimtsum.org/Tiny-Periscopic-Sukkah). Capace di contenere una sola persona e dotata, di quattro rotelle, grazie a un braccio da posizionare fuori dalla finestra e a un gioco di specchi restituisce l’impressione di essere sotto il cielo. Al di là delle discussioni alachiche (normative) che avrà sicuramente innescato – l’autore scrive che è in attesa di validazione di Kasherut! –  ci ricorda che è un precetto a cui non si ha voglia di rinunciare.

     

    Ph. Courtesy Sukkah Village

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