Seminari come quello che si è svolto il 16 settembre presso la Biblioteca Nazionale di Roma dal titolo “Opere da ritrovare. I beni culturali sottratti agli ebrei in Italia: un primo bilancio”, ci ricordano come sia ancora lungo il percorso per una completa conoscenza del patrimonio culturale ebraico sottratto dopo le leggi razziali. L’incontro è stato organizzato dal Gruppo di lavoro per lo studio e la ricerca sui beni culturali sottratti in Italia agli ebrei tra il 1938 e il 1945 – istituito con Decreto Ministeriale del 17 luglio 2020 – di cui fanno parte rappresentanti designati dalle istituzioni statali e dall’Unione delle Comunità Ebraiche (Alessandra Barbuto, Simona De Gese, Maria Ida Gurgo, Gaetano Petraglia, Valerio Marra, Micaela Procaccia e Amedeo Spagnoletto), e ancora disponibile on line [https://fad.fondazionescuolapatrimonio.it/course/view.php?id=342].
Per una corretta individuazione e – nella migliore delle ipotesi – per il recupero di opere d’arte appartenute a ebrei in quel periodo, si rende necessaria una sinergia tra ambiti diversi: da quello storico e storico-artistico fino al campo giudico. Come ha sottolineato lo storico Michele Sarfatti, la categoria di oggetti può essere molto ampia e può comprendere con lo stesso peso culturale oggetti rituali, come sifrè Torà, tele e sculture.
Con la giusta distanza storica sarebbe possibile ritornare, per esempio, ad analizzare episodi noti come quello in cui lo storico dell’arte e collezionista ebreo Giorgio Castelfranco cedette una serie di tele di Giorgio de Chirico – Castelfranco possedeva tra l’altro “Le Muse inquietanti”, uno dei capolavori del maestro – a Rodolfo Siviero, considerato importante artefice del salvataggio di numerose opere nel dopoguerra.
È però certo che dopo il lavoro della Commissione Anselmi (attiva tra il 1998 e 2001) un lungo silenzio ha impedito il recupero di tanti manufatti rimasti nell’ombra di vicende intricate, che questa nuova Commissione è chiamata a individuare. Lorenzo D’Ascia dell’Avvocatura dello Stato ha ribadito come dal punto di vista giuridico il tempo trascorso incida in chiave sostanziale sulla buona riuscita del ritorno ai legittimi proprietari, poiché si rende difficile ricostruire le circostanze e l’acquisizione da parte di un soggetto terzo. Anche quando i fatti erano più vicini e vivi i diretti interessati, non sempre la giustizia ha reso il percorso semplice. La storia ricostruita da Barbara Gaudenzi del “Signor G.” che al ritorno in Lombardia nel dopoguerra non trovò più la sua preziosa collezione di libri, che nel frattempo era stata immessa sul mercato e del lungo periodo voluto per rientrarne in possesso rammenta come il buonsenso non vada sempre di pari passo con l’iter della legge.
Una delle grandi difficoltà che si pongono agli studiosi che vogliano individuare opere e collezioni oggetto di sequestro o vendita forzata, è l’esigua quantità di documenti e la frequente assenza di foto d’epoca che possano identificare con chiarezza questi oggetti; in questo senso la definizione proposta dalla prof.ssa Donata Levi cioè di “documenti muti”, costituiti anche da liste generiche, sembra restituire la complessità della ricerca che deve necessariamente incrociare dati e fonti.
Se dunque l’esito positivo di queste vicende non è affatto scontato, l’impegno deve essere quello almeno di restituire una voce a chi non può raccontare le proprie vicende. È il caso ricordato dalla dott.ssa Barbuto di Edoardo Pollak un ebreo di Fiume (pubblicato da chi scrive e dalla dott.ssa Claudia Crosera, funzionario del Ministero della Cultura, nel 2020). È la vicenda di un tentato sequestro da parte delle autorità naziste di una pala d’altare cinquecentesca di Palma il Giovane, dell’accordo con l’allora Ministero dell’Istruzione e della successiva deportazione di Pollak che non ha potuto reclamarla. Una storia di cui auguriamo che il finale sia ancora da scrivere.