Sarcastico, paradossale, ironico e anche un po’ splatter, sicuramente irrituale. E’ questo e molto altro “Io e la mamma” di Roberto Attias edito dalle Edizioni Efeso. Non è un caso che la scritta in copertina reciti “Dramma semi serio per madre castrante e figlio attore cane ovvero come rovinarsi la vita con gioioso masochismo in salsa ebraica”. Sulla scia dell’umorismo ebraico yiddish-americano Attias non si sottrae a nessuno degli stereotipi sulla mamma ebrea dilatandoli fino all’inverosimile e declinandoli in versione italiana e frikkettona. L’esordio è drammatico: “Ero lì, esanime, quasi catatonico, le lacrime che inondavano i miei poveri occhi perdutamente miopi, contornati da enormi borse arrossate tendenti al violaceo, la pelle grigia, i denti grigi di nicotina”: si presenta così infatti il protagonista e voce narrante dal nome impronunciabile di Achimelech Katzeneluborgen, attore dalla vita immaginifica nei meandri di una Roma resa sconosciuta dalle vicissitudini che vi accadono. Il dialogo delirante con l’elemento ebraico del protagonista è una spirale esilarante anche nel tentativo di suicidio tentato nelle prime pagine e, a onore della madre, sventato e commentato alla luce del “Perché mi fai questo? Perché a me? Mi vuoi morta?… Io sono l’unica, l’unica, donna della tua vita”, frase salvifica e castrante di una mamma ebrea resa nota nell’immaginario collettivo da Woody Allen. Nel più puro stile, appunto, delle barzellette ebraiche che ben conosciamo.
Una mamma ebrea però in una versione italiana – livornese per la precisione – e alternativa, fedifraga, consumatrice occasionale di sostanze psicotrope e di gruppi di autocoscienza ma, inesorabilmente, ‘mamma ebrea’. Esilarante è la costellazione di relazioni che circondano Achi: la moglie Odette che lo tradisce con una donna, la madre che ha una relazione con il suo terapista e un ‘rabbino di strada’ – personaggio irrituale e sconosciuto alla narrativa nostrana – dalla vocazione intensa e dalla dubbia moralità. Ma c’è anche il rapporto col padre israeliano: struggente, dimenticato e, probabilmente, volutamente rimosso: il ‘Toro del Neghev’ infatti ha una storia che si rivelerà solo alla fine del romanzo con una conclusione sorprendente e inaspettata che tinge di giallo la commedia surreale. A tutto questo Achi aggiunge la sua professione di ‘attore cane’ che gli propone mille incontri e lo sottopone a terribili fallimenti. Sempre sull’orlo della miseria Achi, Odette, con la mamma Sarah e la nonna Romilda evitano comunque la fame e abbondano in consumo di vino. Pieno di riferimenti letterari Achi si districa tra citazioni di Ippocrate e tavernello, fallimenti e successi, momentanee sospensioni dall’ansia e parentesi di inaspettata serenità. Achi fa ridere, a volte sorridere, a volte ci ricorda di una madre possibile che incontriamo ogni venerdì sera.