
I risultati politici
Se qualcuno si attendeva grandi annunci pubblici dall’incontro fra Trump e Netanyahu, come quello che nella visita precedente lanciò il piano per Gaza, questa volta è stato deluso. Come però non hanno avuto soddisfazione quelli che prevedevano (o desideravano) l’emergere di dissensi fra i due leader. Trump ha annunciato “il via libera all’attacco all’Iran” (così il titolo del quotidiano israeliano di opposizione Yedioth Ahronoth) o almeno lo ha preannunciato, ammonendo gli ayatollah a non proseguire nei loro piani di armamento non solo nucleare ma anche missilistico. È un “via libera” a Israele, ma anche la minaccia di una partecipazione americana (“Non vorremmo dover sprecare del carburante per far volare i nostri bombardieri B2”). Ha anche confermato che gli Usa non si impegneranno nella ricostruzione di Gaza se prima Hamas non sarà stato disarmato davvero e l’ha fatto nei termini più minacciosi: “se non abbandonano presto le armi, si aprirà l’inferno. E quel che accadrà non sarà responsabilità di Israele”. Per il momento non c’è nessuna richiesta per l’uscita dell’esercito israeliano dal 60% circa di Gaza che oggi presidia. Insomma Netanyahu ha avuto la conferma dell’appoggio di Trump sui temi più caldi. Due, invece, sono stati i punti di distacco. Uno è la Turchia, che continua una politica duramente anti-israeliana ma, sfidando il veto di Gerusalemme, esige di far parte delle forze che dovranno sorvegliare la pace a Gaza. Anche su questo punto però Trump in pratica ha accettato la posizione israeliana. “Se [lo schieramento turco a Gaza] va bene, allora tutto a posto, ma dipende da Netanyahu. Erdogan a me sembra eccellente; non so se anche Netanyahu [la pensa così]”. Il secondo tema su cui secondo Trump “c’è un accordo al 90%” (dunque non completo) “è la Cisgiordania”, cioè in sostanza il ruolo dell’Autorità Palestinese. Ma su questo non ha elaborato ulteriormente.
Un contratto per la superiorità aerea
Insomma, per dirla con il grande giornalista israeliano Amit Segal Israele ha ottenuto da questo incontro più di quel che si aspettasse, cioè una conferma piena di un rapporto strategico con gli Usa che sembra incrollabile, nonostante gli insistenti pettegolezzi in contrario, almeno finché Trump e Netanyahu resteranno al loro posto. Nei colloqui in Florida fra Netanyahu e vari dirigenti americani ci sono stati anche degli aspetti concreti e operativi. Si tratta di accordi riservati forse anche in merito all’attacco all’Iran che molti danno per prossimo; ma difficilmente ne sapremo qualcosa prima che siano attuati. Quel che è stato reso pubblico è però un punto molto significativo: l’approvazione del governo americano di un contratto per la vendita (a quanto pare per 5 miliardi di dollari per lo più tratti dagli aiuti americani) di 25 nuovi aerei da combattimento F-15EX Eagle II di nuova generazione, che saranno consegnati a partire dal 2030, più l’opzione di altri 25. Sono aerei da caccia e da bombardamento con grande autonomia che corrispondono perfettamente alle esigenze della difesa di Israele. Si tratta anche probabilmente della soddisfazione di un’altra esigenza fondamentale per Israele, il mantenimento della superiorità aerea se, come pare, gli Usa hanno deciso di vendere ad Arabia Saudita e forse persino alla Turchia, sia pure in versione meno avanzata, quegli F-35 che oggi sono la punta di lancia dell’aviazione israeliana.
Il disordine regionale
La conferma dell’accordo fra Usa e Israele è importante non solo per determinare il futuro della guerra, ma anche per rispondere a un momento di turbolenza politico-militare in Medio Oriente, la cui gravità non è stata forse ancora colta in Europa. Sembra infatti che l’asse portante dei paesi sunniti moderati sia minacciato da una contrapposizione sempre più netta fra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU). L’Arabia sembra avvicinarsi alla Turchia, appoggiando il regime siriano e la Somalia, mentre gli Emirati continuano a essere vicini a Israele su molte questioni regionali. Il centro del conflitto fra Arabia e EAU è oggi lo Yemen. Molti nell’ultimo anno hanno identificato questo paese con gli Houti che bombardano Israele e la navi di passaggio nel Golfo di Aden. Ma gli Houti sono solo un gruppo ribelle, che controlla solo un terzo circa del paese, anche se rafforzati dalle armi iraniane. Il resto del paese è in mano a due forze, quel che resta del governo yemenita riconosciuto internazionalmente, che è appoggiato dall’Arabia, e il “Fronte del Sud” che è invece sostenuto dagli Emirati. Nelle ultime settimane questo Fronte ha duramente sconfitto il governo filo-arabo, conquistando tutto il centro del paese. L’Arabia lo considera un pericolo e lo imputa agli Emirati e ne ha anche bombardato un trasporto d’armi. Dunque c’è un conflitto armato in corso, che rischia di rompere la solidarietà contro l’Iran. Il riconoscimento israeliano al Somaliland, situato nel Corno d’Africa proprio di fronte allo Yemen (anche in questo caso, uno dei tre stati che si contendono il territorio della vecchia Somalia) va letto anche in questa luce. O almeno vanno lette così le reazioni degli Stati vicini: l’Arabia ha duramente condannato “la violazione della legalità internazionale” e dichiarato che la mossa mette a rischio la normalizzazione con Israele; gli Emirati non si sono espressi, cioè in sostanza hanno approvato. Il fatto è che con l’indebolimento militare dell’Iran e la perdita di credibilità subita dal Qatar nella regione si sono riaperti i giochi di potere e questi spesso si esprimono di lotte fra tribù poco compatibili con gli Stati in senso occidentale. Per impedire una pericolosa anarchia regionale, in cui troverebbero nuovo spazio gli Houti e potrebbero inserirsi non solo l’Iran e la Turchia ma anche la Cina, che ha già una base a Gibuti (un’enclave somala), il coordinamento fra Israele e Usa è essenziale. E infatti Trump ha anche dichiarato di non avere nulla in contrario al riconoscimento israeliano del Somaliland.













