
Per oltre trent’anni Josef Mengele, il medico nazista noto come l’“angelo della morte” di Auschwitz, riuscì a condurre un’esistenza sorprendentemente tranquilla in Sud America, sotto gli occhi, e spesso con la complicità, delle autorità locali. È quanto emerge da un vasto archivio di documenti, rimasto nascosto per decenni e desecretato nei mesi scorsi per ordine del presidente argentino Javier Milei.
Le carte, molte delle quali mai rese pubbliche prima, raccontano con chiarezza la rete di protezione, omissioni e lentezze burocratiche che permisero a uno dei peggiori criminali della storia di sfuggire alla giustizia.
Mengele fu il principale responsabile delle selezioni a Birkenau dal 1943 al 1945: decideva chi, tra i deportati appena scesi dai treni, sarebbe stato avviato al lavoro forzato e chi invece sarebbe finito subito nelle camere a gas. Sotto il pretesto della ricerca scientifica, condusse esperimenti crudeli e letali, soprattutto su gemelli, bambini e persone fragili. I sopravvissuti lo ricordano come un sadico, freddo e distaccato, capace di separare famiglie in pochi istanti e condurre torture con apparente neutralità medica. Dopo la liberazione di Mauthausen, dove era stato trasferito nelle ultime settimane di guerra, Mengele sparì. Rimase nascosto in Germania per alcuni anni fino a riuscire a fuggire in Sud America nel 1949. Entrò in Argentina con un passaporto italiano falso intestato a “Helmut Gregor”, ottenendo nel 1950 anche un documento d’identità da immigrato.
I dossier appena resi pubblici mostrano che, già a metà degli anni Cinquanta, le autorità argentine erano perfettamente consapevoli che sotto il nome “Gregor” si celava il medico di Auschwitz. Nonostante questo, non agirono. I documenti includono foto, rapporti di sorveglianza, copie di passaporti, note d’intelligence, registri d’immigrazione e rassegne stampa. Tra queste, un’intervista alla vittima polacca José Furmanski, gemello sopravvissuto ai suoi esperimenti: “Raccoglieva gemelli di tutte le età e li sottoponeva a esperimenti che finivano sempre con la morte. Bambini, donne, anziani. Orrori indicibili”.
Nel 1956 Mengele, sentendosi evidentemente al sicuro, chiese alla sede diplomatica della Germania Ovest a Buenos Aires una copia autentica del proprio certificato di nascita e iniziò addirittura a usare il suo vero nome nei documenti. Una mossa resa possibile dal clima di protezione che circondava molti ex nazisti rifugiatisi nel Paese. Secondo le carte, Mengele viveva a Carapachay, nella periferia di Buenos Aires, dove lavorava in un laboratorio medico, aveva sposato la vedova di suo fratello e riceveva persino visite dal padre, impegnato a sostenerlo economicamente.
Nel 1959 la Germania Ovest emise un mandato di cattura internazionale. L’Argentina, però, rifiutò la richiesta di estradizione. Un giudice locale sentenziò che si trattava di “persecuzione politica”. Il diniego, accompagnato da crescenti pressioni internazionali, spinse Mengele a fuggire in Paraguay, dove ottenne rapidamente la cittadinanza grazie alla protezione del regime del dittatore Alfredo Stroessner, anch’egli di origini bavaresi. Quando le autorità argentine finalmente perquisirono il suo laboratorio, il dottor “Gregor” era già scomparso.
Negli anni successivi, i servizi argentini continuarono a seguirne le tracce quasi esclusivamente attraverso notizie di stampa e scambi con servizi stranieri.
Secondo l’archivio, Mengele entrò clandestinamente in Brasile nel 1960, protetto da agricoltori di origine tedesca e simpatizzanti nazisti. Lì visse usando vari alias, tra cui “Peter Hochbichler” e la versione portoghese del suo nome, “José Mengele”.
Il 7 febbraio 1979, mentre nuotava a Bertioga, nello Stato di San Paolo, Mengele fu colto da un ictus e annegò. Aveva 67 anni. Fu sepolto con il falso nome di “Wolfgang Gerhardt”. Solo nel 1985, grazie a nuove indagini condotte in Brasile, il corpo venne riesumato e identificato attraverso l’analisi delle ossa, poi confermata definitivamente dal test del DNA nel 1992. Oggi i suoi resti sono conservati presso la facoltà di medicina dell’Università di San Paolo, dove vengono utilizzati per la formazione forense.
L’archivio desecretato da Milei illumina un pezzo oscuro della storia argentina: un Paese che, nel dopoguerra, accolse e talvolta protesse criminali nazisti di altissimo profilo, da Adolf Eichmann allo stesso Mengele, che vi visse per oltre un decennio.
Le carte mostrano non solo la presenza diffusa di reti di ex nazisti e simpatizzanti, ma anche una volontà politica insufficiente, un apparato di sicurezza inefficiente e una preoccupante ambiguità nel trattare individui responsabili dello sterminio del popolo ebraico.












