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    Spigolature da Roma. Lo Shibolè ha-leqet

    Non è un mistero che la presenza ebraica a Roma sia antichissima. La leggenda vuole che quattro famiglie vennero esiliate a Roma da Tito ai tempi della distruzione del secondo Tempio. A una di queste famiglie, quella degli Anawim (dei Mansi), apparteneva uno dei più illustri rabbini romani, Zidqià ben Avraham ha-rofè (XIII sec.), autore dello Shibolè ha-leqet, opera halakhica, fra le prime del genere in Italia, nella quale vengono illustrate, fra le numerose norme, usanze ancora oggi praticate dagli ebrei romani. Il fratello dell’autore, Biniamin, uno dei maggiori dotti romani del suo tempo, si distinse per le sue conoscenze filosofiche, matematiche e astronomiche, e fu autore di vari componimenti poetici recitati nel rito romano e ashkenazita. Alla stessa famiglia apparteneva anche Natan ben Yechiel, che nell’XI secolo scrisse l’Arukh, una grandiosa opera lessicografica sulla letteratura postbiblica, che diede all’autore ampia fama e funse da base per i lessici talmudici successivi.  

     

    Nello Shibolè ha-leqet (ed. Buber, cap. 263, p. 252) viene ricordata una delle pagine più tristi della storia degli ebrei nel medioevo, il rogo del Talmud di Parigi del 5004 (1244, o secondo gli studiosi 1242), da cui scaturì l’uso di digiunare il venerdì che precede lo Shabbat in cui viene letta la parashà di Chuqqat. Questo riferimento ci permette di inquadrare cronologicamente l’opera, scritta al massimo pochi anni dopo. La formazione di R. Zidqià iniziò a Roma, allora importante centro di studi, sotto la guida di R. Meir ben R. Moshè e di R. Yehudà ben R. Biniamin, figlio del fratello di suo padre Avraham. Gli studi proseguirono nelle yeshivot francesi e ashkenazite, sotto la guida di R. Ya’aqov di Wurzburg e probabilmente di R. Avigdor ha-Kohen di Vienna, prima del ritorno in Italia, dove R. Zidqià diviene allievo del tosafista R. Eli’ezer di Verona. Nella sua opera R. Zidqià cita frequentemente R. Yesha’ayà da Trani (Ri”d), uno dei massimi commentatori del Talmud e una delle maggiori autorità rabbiniche nell’Italia medievale, ma non abbiamo testimonianze di alcuna interrelazione fra i due, probabilmente perché R. Zidqià lasciò l’Italia da giovane.  

     

    L’opera più famosa di R. Zidqià è intitolata Shibolè ha-leqet, spigolature. L’immagine bucolica viene illustrata nell’introduzione dall’autore, che ha raccolto delle spighe (fuor di metafora, degli insegnamenti) dai Gheonim e le ha riunite in dei covoni, separando la paglia dal grano. In questo lavoro R. Zidqià non si esime dal prendere posizione nelle varie dispute rabbiniche, ma pur riconoscendo la grandezza delle autorità precedenti e la propria insignificanza, si considera, riprendendo un’argomentazione già presentata dal Ri”d, come un nano sulle spalle dei giganti, che può vedere più lontano di loro, quando si avvale della loro conoscenza e esperienza. Questa metafora, che a noi, visto l’ampio utilizzo che se ne fa al giorno d’oggi, può sembrare molto familiare, ha una prima attestazione di rilievo nel Metalogicon di Giovanni di Salisbury (1159), che ne attribuisce la paternità al suo maestro Bernardo di Chartres.  

     

    L’opera si interessa delle regole relative alla vita quotidiana e alle festività. Conta complessivamente 372 capitoli, sheva’ (sette) nella ghematrià, richiamando così le sette spighe (sheva’ shibolim) di bell’aspetto dei sogni del Faraone, interpretati da Giuseppe nel libro della Genesi. Un’altra opera, che qualcuno considera la seconda parte dello Shibolè ha-leqet, affronta altre tematiche afferenti ad altri ambiti della normativa ebraica, affrontandoli però in un modo sensibilmente differente a livello metodologico rispetto all’altra opera.  

     

    Le prime edizioni a stampa dello Shibolè ha-leqet, a partire dall’edizione di Venezia del 1546, riportano in realtà solo una parte, circa un terzo, degli insegnamenti in esso contenuti, a volte inserendo dei cambiamenti considerevoli. L’edizione completa dello Shibolè ha-leqet, che comprende anche le norme sul lutto, la circoncisione, lo tzitzit, i tefillin, la shechità e le terefot (difetti fisici degli animali che li rendono inadatti al consumo) è stata pubblicata molto più tardi, nel 1886, grazie al lavoro compiuto da Shelomò Buber, il nonno di Martin Buber, su due manoscritti dell’opera. Le varie edizioni sono consultabili in rete, per esempio sul sito hebrewbooks.org. 

     

    Allo Shibolè ha-leqet sono collegati altri testi halakhici, il Tania Rabbatì di R. Yechiel Ben Yequtiel, anch’esso appartenente alla famiglia degli Anawim, che divenne il libro guida per gli usi e le tradizioni che seguono il rito italiano, e il Sefer ha-taddir di R. Moshè ben Yequtiel de’ Rossi. In un articolo dedicato a quest’ultima opera Rav Nello Pavoncello ne traduce il titolo “libro di continua ed assidua consultazione”, in quanto esso si fonda sui “precetti più frequenti che l’ebreo deve osservare ed in quanto esso deve trovarsi continuamente nella Sinagoga, come libro di consultazione per tutti coloro che ne avranno la necessità”. Non si può non notare che all’epoca, alla fine del XIV secolo, tutti i frequentatori di un Bet ha-keneset erano in grado di leggere un testo halakhico scritto in ebraico, per quanto semplice. Credo che questo debba essere un obiettivo da perseguire per le nostre comunità al giorno d’oggi.

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