
Una stanza anonima, nel Comando Sud, lontana dai riflettori e dal rumore delle operazioni militari. È da qui che opera NILI, una piccola unità di intelligence dell’IDF incaricata di una delle missioni più complesse e sensibili della guerra: identificare, rintracciare e neutralizzare tutti coloro che il 7 ottobre hanno attraversato il confine israeliano partecipando a rapimenti, omicidi e atrocità contro civili e militari. Il nome dell’unità non è casuale. NILI è l’acronimo di un versetto biblico: “L’Eterno d’Israele non mentirà”, e racchiude una promessa: nessuno di quei terroristi verrà dimenticato. Ne racconta la storia e i segreti il quotidiano online Ynet.
Il lavoro di NILI è metodico. Ogni terrorista viene trasformato in un fascicolo dettagliato: chi è, cosa ha fatto, dove vive, con chi parla, come si muove. Il database dell’unità ha superato quota 6.000 nomi e comprende non solo chi ha partecipato direttamente all’attacco, ma anche chi ha custodito ostaggi, preso parte ai trasferimenti o alla propaganda. Le fonti sono molteplici: interrogatori dello Shin Bet, human intelligence e intercettazioni, materiale recuperato sul campo, video pubblicati dagli stessi terroristi, testimonianze degli ostaggi rientrati. Ogni informazione viene incrociata, verificata, validata. Nulla è lasciato al caso.
La parola chiave è una sola: certezza. Nessun attacco viene autorizzato se non c’è la certezza che il bersaglio sia presente nel luogo indicato e che non vi siano civili coinvolti. Moschee, scuole, mercati affollati diventano automaticamente “zone rosse” se non è possibile isolare il terrorista. Per questo, spesso, l’attesa dura settimane. A volte mesi. Gli analisti seguono i bersagli fino a conoscerli meglio di quanto conoscano se stessi: cosa mangiano, quando pregano, dove dormono. È lì, nei cosiddetti “ancoraggi”, i luoghi in cui il terrorista è statico e prevedibile, che avviene l’azione.
Uno dei casi simbolo è quello di Ahmed Shaer, uno dei rapitori coinvolti nel sequestro di Noa Argamani e Avinatan Or, immortalato in uno dei video più sconvolgenti del 7 ottobre. Shaer, estremamente cauto e quasi invisibile, è rimasto per mesi fuori dai radar. Non usciva, non comunicava, non lasciava tracce. Per quasi dieci mesi, analisti e ufficiali di NILI hanno ricostruito pazientemente ogni frammento della sua vita: movimenti, abitudini, contatti, luoghi frequentati. Quando l’intelligence ha finalmente ristretto il cerchio, il dossier era pronto. Il 25 marzo, in un’operazione chirurgica coordinata con l’aeronautica e i servizi di sicurezza interni, Shaer è stato colpito nel luogo in cui dormiva. La conferma della sua morte è arrivata solo giorni dopo, attraverso messaggi di lutto apparsi sui canali locali di Gaza.
All’interno dell’unità una parola non viene mai pronunciata: vendetta. Gli ufficiali sono netti nel rifiutare questa logica. L’obiettivo è duplice: offrire un senso di chiusura alle famiglie delle vittime e impedire che uomini con esperienza operativa, conoscenza del territorio israeliano e status simbolico possano guidare nuovi attacchi in futuro. Molti di questi terroristi, spiegano, vengono celebrati come eroi, promossi nei ranghi, trasformati in modelli per altri. Eliminarli significa interrompere una catena di emulazione e ridurre una minaccia concreta alla sicurezza.
Anche ora, durante le fasi di cessate il fuoco, il lavoro non si ferma. I dossier vengono aggiornati, le tracce seguite, i nomi aggiunti. “Noi saremo sostituiti”, spiegano nell’unità. “Ma il lavoro continuerà. Finché l’ultimo di loro non sarà stato trovato”.












