La tragedia sul Monte Meron, il crollo della gradinata nella Sinagoga di Givat Zeev, la funivia del Mottarone, le vittime dell’ultimo conflitto tra Israele e Hamas, e i morti del Covid. La collettività ebraica negli ultimi tempi ha affrontato, e sta affrontando, una serie di eventi traumatici, che impongono una riflessione. Come devono gestire i singoli e le Comunità questi traumi che sembrano terremoti, ed il dolore che essi causano? Quali strade indica l’ebraismo? Shalom lo ha chiesto al Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Shemuel Di Segni.
Rav Di Segni, da oltre un anno la Comunità romana (e non solo) ha affrontato numerose sciagure sia all’interno, e mi riferisco alle persone scomparse, anche giovani, a causa della pandemia, sia in Israele, con molta partecipazione. Secondo lei come sono stati affrontati questi eventi nefasti dalla comunità?
Penso che la nostra comunità abbia fatto nel suo complesso quello che una comunità degna di questo nome deve fare, sia a livello dei singoli che delle strutture organizzate. Cominciando con il Covid abbiamo cercato di fare continuare la vita ebraica per quanto fosse possibile, abbiamo partecipato allo sforzo tecnico ed educativo per impedire la diffusione del contagio, siamo stati vicini alle persone e alle famiglie colpite dalla malattia e dalle conseguenze economiche. Certo qualcuno potrà lamentarsi che non è stato fatto abbastanza, ma l’emergenza era forte. Da parte dei singoli c’è stata partecipazione emotiva, disponibilità, proposte di intervento e interventi. La generosità e lo slancio sono stati tali che qualche volta ci sono state idee e iniziative che meritavano di essere pianificate con maggiore calma e attenzione.
Che strada ci indica l’ebraismo nella gestione, sia dei singoli sia della collettività, degli eventi traumatici?
Non rimanere indifferenti. Aiutare fisicamente, economicamente (con la maggiore discrezione possibile, e questo è un punto dolente…), psicologicamente. Qualche volta anche autocontrollarsi, non sempre tutto ciò che pensiamo sia utile, e il modo di farlo, è veramente utile, bisogna coordinarsi e approfittare delle strutture esistenti che sono in grado di operare e come abbiamo visto lo fanno. Bisogna poi tener presente che il problema non è solo quello del doveroso aiuto ai colpiti, ma c’è un problema generale per la collettività. I maestri insegnano che “quando una persona di una compagnia è stata colpita si deve preoccupare l’intera compagnia”. Interrogarsi sul senso e trarne le conseguenze è un dovere preciso.
Quali sono gli esempi nella storia ebraica e nei testi sacri? Come si esce “ebraicamente” da un trauma?
Purtroppo nella nostra storia di esempi ce n’è una lista infinita, e malgrado questo ancora siamo qui ben vivi e vitali. Andare avanti malgrado tutto, progettare e investire nel futuro. Da alcuni traumi ancora non siamo usciti, lo spettro della Shoà colpisce ancora in seconda e terza generazione. ma le “ricette” non mancano. Si pensi alle regole dell’avelùt, del lutto ebraico, scandite in rigori che durano determinati giorni e che si attenuano progressivamente. Una vera e propria guida su come uscire piano piano dal tunnel. Non è mai facile, e se la comunità deve avere un senso lo si vede proprio in queste situazioni, nell’aiuto che può dare. Sentirsi non abbandonati è per molti un conforto decisivo.
Le vicende della funivia del Mottarone e il conflitto tra Israele ed Hamas hanno causato, purtroppo, anche divisioni e divergenze di opinioni. E i social network hanno amplificato queste divisioni, spesso alzando i toni pubblicamente. Che ruolo hanno i leader delle istituzioni in questo senso? Come può la Comunità recuperare l’unità su questi temi?
Le divergenze ci sono sempre state, fanno parte della nostra vita e della nostra storia. Le dirigenze comunitarie dovrebbero esprimere una linea ferma che rappresenta democraticamente il pensiero della maggioranza, i rabbini dovrebbero richiamare ai principi da mantenere e i limiti da non superare (che non sempre si identificano con il pensiero della maggioranza), e insieme operare per mediare, consentire un dibattito costruttivo, combattere la violenza interna, indurre alla teshuvà, includere la dissidenza e non creare mostri.
In una dimensione molto partecipativa e sentita del dolore, si sono condivise pagine personali della storia delle vittime e della loro sofferenza, assieme ai particolari delle vicende. L’ebraismo ci indica una strada anche sulla dimensione privata e collettiva del dolore?
Prima che si parlasse di privacy, il diritto alla riservatezza è stabilito da millenni nella nostra tradizione. Le persone e i loro sentimenti vanno rispettati e solo con il loro consenso vanno divulgati. Il “fai da te” in questo campo è molto pericoloso….