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    Bennett in visita a Dubai: il simbolo del nuovo Medio Oriente possibile

    Il primo ministro israeliano Naftali Bennett è arrivato a Dubai per una visita di stato in cui stamane incontra lo Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahyan, che porta il titolo di erede al trono ma di fatto è il responsabile del governo degli Emirati Arabi Uniti. L’agenda ufficiale dell’incontro riguarda i modi di migliorare ulteriormente i rapporti fra Israele e EAU, che al momento sono eccellenti sul piano economico, politico e anche militare. Ma quel che conta è l’atto simbolico. Dopo la visita del ministro della difesa Benny Gantz in Marocco, qualche giorno fa, ora tocca al capo del governo israeliano compiere un atto soprattutto simbolico, ma proprio per questo importantissimo. Era successo in passato che governanti israeliani andassero in visita a vari stati arabi,  per esempio Golda Meir era stata ricevuta da re Hussein di Giordania, ma solo in maniera non ufficiale, sotto un pesante travestimento. Ora la visita di Bennett è stata annunciata sì all’ultimo momento per ragioni di sicurezza, ma è pubblica, ufficiale, accolta con favore tanto dal governo quanto dalla popolazione dell’emirato, che ha già visto turismo feste e matrimoni ebraici, un padiglione di Israele all’Expo, di recente l’accensione di una grande hannukkià sotto il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo che è il simbolo del piccolo e dinamico stato del Golfo.

     

    Quel che rende storica la visita di Bennett è la parola che lui stesso ha pronunciato più volte nella dichiarazione a proposito del suo viaggio: “normalizzazione”. Fra Israele e gli Emirati, finalmente, i rapporti sono normali. Il che significa non solo che vi è un regolare ambasciatore emiratino che ha presentato le credenziali al presidente Herzog e uno israeliano ricevuto dall’Emiro Mohammed bin Rashid Al Maktum, che vi sono parecchi voli al giorno fra gli aeroporti dei due stati, che l’intercambio commerciale ha raggiunto ormai i miliardi di euro. Ma che gli ebrei sono accettati normalmente a Dubai, come gli abitanti degli emirati in Israele: vi sono già anche degli scambi di studenti nelle università.

     

    Sembra una cosa ovvia, ma bisogna ricordare la discriminazione antiebraica che ha radici profonde nella cultura araba. Non occorre pensare solo a tutte le vessazioni storiche, alle umiliazioni e alle vere e proprie persecuzioni del passato; basta ricordare tutte le volte che negli anni scorsi atleti di nazioni islamiche hanno rifiutato di incontrare nelle Olimpiadi e in altre competizioni internazionali i concorrenti israeliani. C’è stato per secoli e ancora c’è in molti paesi un rifiuto fisico degli ebrei, un’insofferenza personale prima che politica, un rancore profondo per chi secondo la tradizione e il Corano dovrebbe essere sottomesso e invece si comporta come un essere libero e uguale agli altri.

     

    Questo antisemitismo davvero diffuso, concreto e quotidiano spiega anche perché i trattati di pace che Israele ha stretto in passato con altri stati islamici (Egitto e Giordania) non sono mai decollati, sono rimasti “freddi”, senza scambi di persone, con accordi commerciali e politici stretti ai vertici e magari rispettati puntualmente ma non condivisi né partecipati dalla popolazione. Il caso degli Emirati, del Bahrein, forse anche del Marocco è diverso. La normalizzazione sta passando davvero, con grande vantaggio reciproco. Un po’ come è accaduto in Europa, quando odi secolari come quelli fra Francia e Germania sono stati finalmente spazzati via dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il caso degli Emirati è ancora più importante, perché mostrano che la normalizzazione è possibile senza resistenze di piazza, che essa è conveniente e stimolante sul piano umano e culturale, insomma che ci si possono lasciare alle spalle secoli di odio e disprezzo.

     

    Il merito è naturalmente degli “accordi di Abramo” patrocinati da Trump, e tiepidamente sostenuti anche dall’amministrazione americana attuale. Possiamo sperare che si tratti di un passaggio generalizzabile e irreversibile. Generalizzabile perché altri stati, come già il Sudan, forse l’Arabia, magari anche Tunisia, Mali vi si associno progressivamente. Anche in Iraq e in Libano si sono fatte sentire delle voci, minoritarie ma autorevoli, a chiedere la normalizzazione. Irreversibili perché dopo aver visto i progressi prodotti nel commercio, nella cultura, nell’industria, nella difesa da un rapporto vero e non solo formale con Israele, sarà difficile tornare indietro alla demonizzazione. Israele può dare molto ai suoi vicini in termini di know how, tecnologie, capitali, educazione, difesa; e può ricevere altrettanto, prima di tutto in termini di pace, normalità, ma anche di mercati, di partnership, di convivenza. Tutto il Medio Oriente, se non sarà assalito dall’assalto dei terroristi sostenuti dall’Iran, ha molto da guadagnare. Il viaggio di Bennett simboleggia questo futuro.

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