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    ROMA EBRAICA

    Un anno dal 7 ottobre: la normalizzazione dell’odio

    Potrebbe essere una vignetta ma purtroppo non lo è. È la fotografia della realtà. Al netto della sua drammaticità, vista anche la tragedia sfiorata, è di grande impatto l’immagine del responsabile dell’attentato alla sinagoga Beth Yaakov di La Grande – Motte, un algerino di 33 anni, che si allontana con una kefiah in testa, armato di ascia e pistola, con due bottiglie di liquido esplosivo in mano e avvolto dalla bandiera palestinese. Un’immagine alla quale un bravo disegnatore potrebbe ispirarsi perché racchiude, evidenzia e riassume ogni singolo elemento del male, vecchio e nuovo, (ri)emerso con forza nel giro di uno schiocco di dita dal pogrom jihadista del 7 ottobre. Abbraccia tutti gli ingredienti dell’odio e della violenza antiebraica con le sue bugie: il terrore, le armi, le bombe e la maschera di chi ce l’ha con gli ebrei perché, a suo dire, gli rubano la terra. E sullo sfondo il disegnatore potrebbe aggiungere l’immagine (anche questa reale) della statua di Anna Frank deturpata ad Amsterdam con le scritte su Gaza. Ci sarebbe davvero tutto per tentare di sensibilizzare qualche coscienza. Non servirebbe neanche una parola e, senza ironia, stupisce davvero che i vignettisti, almeno tanti di quelli italiani, che si sono sbizzarriti in questi mesi in interpretazioni allusive e temerarie del conflitto Israele-Gaza, rispolverando simboli, fantomatici deicidi e pregiudizi vari, come tanti nostri colleghi, non abbiano colto questa occasione.
    Non servono maestri del disegno satirico e dissacrante per descrivere, enfatizzare e denunciare l’onda lunga di antisemitismo e violenza che gli ebrei stanno vivendo in Israele, in Europa e in tanti altri paesi del mondo: ogni fotogramma della storia di questo ultimo anno è un evidenziatore di un dato di realtà, una denuncia di fatti talmente eloquenti che se ci si volta altrove per non guardare, se ne vedono altri pullulare come in un moltiplicatore. Eppure l’attentato terroristico del 24 agosto in Francia (dove anche prima del 7 ottobre si uccidevano gli ebrei e si scaraventavano dalla finestra), nella cittadina turistica vicino a Montpellier, che per miracolo non ha lasciato a terra decine di vittime, ha avuto nei giornali italiani, tranne rare eccezioni, lo spazio di una notizietta che non merita più di 20 righe.
    Ci si abitua a tutto, purtroppo, ma ad essere sinceri bisogna riconoscere che al ribaltamento della realtà, all’antisemitismo, alla barbarie che ha colpito e colpisce Israele, ci si è forse abituati un po’ di più e in tempi rapidissimi. Gli ebrei e gli israeliani no, loro naturalmente non si sono abituati e considerano ancora insostenibile l’idea un bambino che ha compiuto un anno nelle mani dei terroristi di Hamas, delle donne da loro stuprate, dei centinaia di israeliani rapiti o uccisi nella strage di un anno fa, poi negli attentati, delle migliaia di sfollati cacciati dalle loro case dai missili di Hezbollah che ammazza i ragazzini mentre giocano a calcio, del numero impressionante dei giovani soldati dell’IDF rimasti uccisi o mutilati in una guerra contro il male che Israele non ha mai cercato. Degli ostaggi qui in Italia non se ne parla più, se non come “posta” sul tavolo delle trattative che per volontà dei terroristi, oramai promossi al rango di credibili interlocutori, falliscono miseramente da mesi. Ormai è tutto normale, come essere in una lista di proscrizione antisemita, una specie di odioso menu che offre i nomi di ebrei e cosiddetti “sionisti” per circoscriverli, puntarli ed invitare a colpirli.
    “Questa normalizzazione è spaventosa perché porta all’indifferenza, noi sappiamo cosa significa”, mi confessa una voce italiana da Gerusalemme. È un grave e preoccupante segno del nostro tempo, un altro effetto dell’accelerazione, di quella miccia antisemita innescata di nuovo un anno fa con la strage del 7 ottobre.
    Allora ripenso ad un amico israeliano che andò qualche anno fa in Polonia a girare un film sulla Shoah: la sua famiglia veniva proprio da lì e aveva vissuto le persecuzioni. Al suo arrivo, travolto dalla profonda emozione, spinto dal bisogno di condividere con qualcuno le ragioni di quel viaggio e finalmente di riconciliarsi con la storia, iniziò a parlare con l’anziano tassista: lui da bambino viveva accanto ad una famiglia di ebrei, poi un giorno li portarono via. Dopo ne portarono via altri ed altri ancora. E a lui non gli venne proprio da pensare a dove fossero finiti. In fondo era normale che gli ebrei sparissero nel nulla, accadeva così spesso a quei tempi da lasciare tutti gli altri indifferenti. E anche lui si era abituato in fretta.

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