Vite spezzate per sempre,
inghiottite nella tragedia della Shoah, ma soprattutto storie di sommersi la
cui ferocia delle deportazioni del 16 ottobre 1943 ha strappato per sempre alla
Storia. È la mostra “I sommersi, 16 ottobre 1943” inaugurata nell’ottantesimo
anniversario di questa data presso i Musei Capitolini e curata da Yael Calò e
Lia Toaff. Un’iniziativa importante nell’ambito delle numerose iniziative
promosse per ricordare il rastrellamento degli ebrei romani.
L’esposizione si contraddistingue
per il forte impatto emotivo che riesce a comunicare: è nata infatti dall’idea
di ricostruire un volto a tutte quelle persone che la Shoah ha tentato di
cancellare e per evocarne la quotidianità violentemente spezzata. Due sale
espositive dal profondo impatto emotivo, le cui teche evocano le mura
domestiche di quelle famiglie: orologi, pagelle, grembiuli scolastici,
documenti e tanto altro. Nell’esposizione si alternano oggetti di uso
quotidiano, dipinti, disegni, fotografie, documenti, giornali, ricordi di
trincea della Prima Guerra Mondiale, articoli di giornale che appartenevano a
queste persone; poi gli elementi che riportano a quella funesta data con fonogrammi
della questura, elenchi dei deportati, messaggi scritti dalle persone arrestate
con i mezzi più fortuiti. La vita spezzata emerge attraverso la suggestione e
la potenza evocativa degli oggetti appartenuti alle famiglie, nella cui
intimità esplode la forza narrativa della storia.
Un grembiule scolastico, un
astuccio e delle pagelle, oggetti prestati dalla famiglia Zarfati, troneggiano
nella sala, raccontando con candore di quell’infanzia rubata ai bambini vittime
della Shoah. Si tratta della storia di Emma Perla Caviglia e dei suoi figli
Rosa, Leo e Italia. Furono presi nel quartiere Nomentano per una mera
casualità, visto che la famiglia abitava a Velletri. Il marito di Emma attese
invano il ritorno della sua famiglia, custodendo gli oggetti dei suoi cari con
zelo. Poi l’uomo, ormai privato dei suoi affetti, decise di costruire una nuova
vita sposando un’altra donna, la cui figlia decise di conservare per sempre i
ricordi di quella famiglia mai tornata dai campi della morte nazisti.
La mostra propone anche oggetti
matrimoniali dall’enorme valore simbolico come le fedi nuziali, come quella
appartenuta a Enrichetta Anticoli, un’altra vita spezzata da quella feroce e
infame mattinata di deportazioni, la cui storia spunta tra le teche
dell’esposizione. Nata nel 1915 nel cuore dell’antico quartiere ebraico,
Enrichetta conobbe e sposò Leone Di Capua nel 1937. Dall’ex ghetto i due si
trasferirono nel quartiere Ostiense e misero al mondo due figlie: Rosina (1938)
e Rina (1939). Il 15 ottobre 1943 Enrichetta cominciò a discutere con suo
marito Leone, una discussione accesa che degenerò finché, in un momento di
cieca rabbia, decise di lasciare in casa la fede e il suo anello di brillanti.
Con sé portò via le sue figlie, intenzionata a trasferirsi nella casa della sua
infanzia. Accadde così che l’indomani, alle prime luci dell’alba Enrichetta
assieme alle sue bambine, a suo padre Lazzaro e a sua sorella Rosa, furono
strappati dalla propria abitazione in via della Reginella, nel cuore del
quartiere ebraico, e deportati nei campi di sterminio. Nessun componente della
famiglia di Enrichetta fece ritorno. Di lei rimasero però due anelli: la fede e
l’anello di fidanzamento. Due oggetti fermi nel tempo, che Leone tenne
gelosamente con sé per tutta la vita. Un ricordo amaro della sua famiglia
distrutta per sempre. Oggetti carichi di significato e fermi nel tempo che
riescono a raccontare un passato lontano, restituendo volti e storie a quelle
vite sommerse.
«Abbiamo scelto di raccontare solo
il 16 ottobre – hanno spiegato a Shalom le curatrici – Entrando nella mostra,
sin da subito ci si immerge nella mattina del rastrellamento. Il concept si sviluppa su due piani: i
sommersi e la città. La nostra ricerca ha avuto come obiettivo quello di parlare
di alcune famiglie ebraiche che furono catturate in vari quartieri della città,
i più disparati, dando voce a nuclei completamente distrutti».
Furono 1022 gli ebrei romani
deportati dopo gli arresti di quel giorno; solo in 16 fecero ritorno. Per coloro
che non hanno potuto raccontare in prima persona la propria storia, la mostra
ne ricostruisce le vite attraverso gli attimi prima della distruzione. Scene
quotidiane catturate in un fermo immagine, prima della tragedia. Un viaggio
nella storia che fa immergere il
visitatore all’interno della città di Roma, che diventa l’altra grande
protagonista di questa mostra. La Capitale venne infatti divisa in zone dai
nazisti al fine di deportare tutti gli ebrei, con ogni mezzo possibile, e di
cancellarne l’identità. Aleggia tra le
sale espositive il rumore e l’odore della pioggia, ricordo indelebile
raccontato negli anni da tutti coloro che vissero sulla pelle quella giornata.
L’esposizione, promossa da Roma
Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni
Culturali, Comunità Ebraica di Roma e Fondazione per il Museo Ebraico di Roma,
rientra nel programma commemorativo dell’80°anniversario del rastrellamento
degli ebrei di Roma del 16 ottobre 1943, realizzato con il contributo del
Ministero dell’Interno. Organizzazione di Zètema Progetto Cultura, con Catalogo
Palombi editore. La mostra sarà visitabile presso i Musei Capitolini fino al 18
febbraio 2024.