Ci dicevano di restare vigili i nostri nonni. Ogni volta che raccontavano dei loro fratelli, dei genitori, che erano stati portati via. Abbiamo creduto per ottant’anni che il ricordo della Shoah fosse un antidoto, che il lavoro sulla memoria, condiviso e anche portato avanti dalla società civile, garantisse un futuro senza la caccia all’ebreo. Non è stato così. Con il pogrom jihadista del 7 ottobre è tornato il terrore e noi abbiamo scoperto che la memoria è vulnerabile: l’odio antiebraico è passato di casa in casa per mano dei terroristi di Hamas, nei kibbutz, nei villaggi al confine della striscia di Gaza, spargendo morte e violenze inenarrabili.
Una narrativa rinnovata
Abbiamo pubblicato il numero di Shalom Magazine sugli ottant’anni dal 16 ottobre 1943 con una copertina dedicata ai bambini che non sono più tornati. Pensavamo di relegare quell’orrore al passato, eppure adesso tornano le stesse immagini, questa volta dei bambini rapiti e barbaramente uccisi da Hamas. Dopo l’attacco ad Israele e la sua risposta per difendersi dalla minaccia perenne di distruzione, si è riaccesa la miccia dell’odio antiebraico anche in Occidente. L’antisemitismo è tornato, dà la caccia agli ebrei, macchia le loro case di simboli, accende le piazze del mondo, brucia la bandiera israeliana, le porte di casa di cittadini europei e in Italia la memoria dei deportati. Un fuoco antisemita alimentato dagli equilibrismi acrobatici di una parte della stampa, che si nasconde dietro ad “un’ovvia” solidarietà ad Israele per i fatti del 7 ottobre e invita a parlare “ministri” dei terroristi (come se alle organizzazioni terroristiche fosse dovuto un upgrade istituzionale in tempi di guerra). Seguono poi le “accuse insensate da cui discolparsi”, come scriveva Wanda Lattes su questo giornale all’indomani dell’attentato del 9 ottobre ’82. Accuse mosse da chi prova un fastidio atavico alla sola vista di un ebreo che si difende da una minaccia esistenziale e da chi pensa che la colpa d’Israele sia la sua stessa fondazione. Per gli ebrei di Roma si tratta di un déjà vu, è la storia di 40 anni fa che si ripete.
Anche questa volta risponderemo all’imperativo “E lo racconterai ai tuoi figli”. Ma il 7 ottobre, assieme all’inevitabile ritorno dell’antisemitismo, impone a tutti noi una riflessione su come affrontare un nuovo cortocircuito della storia. Chi fa mancare oggi la solidarietà incondizionata ad Israele per ciò che ha subito nel “Sabato nero”, delegittimando così il suo diritto a difendersi, non può celebrare la memoria collettiva della Shoah. Da adesso quel minuto di silenzio che segue la posa delle corone nelle varie celebrazioni per ricordare gli orrori di ottant’anni fa, deve servire per riflettere su cosa unisce Babyn Yar a Be’eri, i pogrom più efferati della storia alle violenze del 7 ottobre. Deve servire per comprendere la continuità e la natura dell’odio violento e antiebraico che si annida ovunque. In ogni epoca.
La via d’uscita e l’arma segreta
“Ma noi sappiamo come uscire dalle tragedie” ha detto il Presidente Isaac Herzog, spiegando quale è l’arma segreta d’Israele. Quest’arma è la pentola che bolle ininterrottamente da due mesi in una cucina di un ristorante italiano a Tel Aviv dove si preparano i pasti per i soldati, i volontari che si mettono ai fornelli dandosi il cambio in una staffetta che non ha precedenti. Sono anche i disegni dei bambini che arrivano dall’Italia, messi nei pacchi preparati per chi sta combattendo una guerra mai cercata da Israele. Quei disegni pieni di vita, mai di morte, che ci raccontano la forza e la speranza del popolo ebraico. L’arma più potente d’Israele in questa guerra è quella che gli permette di guardare al futuro, è il suo capitale umano, sono i bulbi di fiori che attendono di germogliare: sono stati piantati in un moshav da una volontaria che ha perso suo figlio mentre combatteva i tagliagole a Be’eri il 7 ottobre, in una serra di un agricoltore che neanche conosce. “Ognuno di noi deve considerarsi come se fosse uscito da Be’eri. Da Kfar Aza. Da Ofakim. – scrive la giornalista Chen Artzi Sror su Yedioth Ahronot – Si deve ricordare e non dimenticare fino all’ultimo giorno, non per inculcare il terrore, al contrario, per infondere la speranza”. Anche questo racconteremo ai nostri figli.