Quando ci furono i fatti di Monaco, avevo dodici anni e non ho ricordi sugli avvenimenti, forse qualche immagine dei telegiornali in bianco e nero, gli elicotteri bruciati sulla pista di un aeroporto, niente più. In seguito, essendo fra gli attentati più gravi subiti dagli israeliani, l’ho storicizzato e molte storie delle vittime di quell’atto terroristico mi hanno colpito profondamente. Come, per esempio, quella di Yossef Romano, nato in Libia, a Bengasi. Suo padre decise di andare a vivere in Israele nel 1949, lo Stato era stato fondato un anno prima. Fu aiutato con la moglie e undici figli a lasciare la Libia dalle organizzazioni sioniste perché lì per gli ebrei la situazione si era fatta difficile, ogni occasione per gli arabi era buona per compiere angherie. Così anche Yossi era partito per la nuova patria a nove anni.
Non era alto ma era un ragazzino robusto, non era bello ma simpatico. Quando sorrideva mostrava una fessura fra gli incisivi bianchissimi che risaltavano ancora di più in contrasto col nero della folta e crespa capigliatura. Non fu un paese di latte e miele quello che trovarono, ma almeno da lì nessuno li avrebbe mai più cacciati. Nel 1967, Yossef aveva 27 anni ed era soldato, difese la patria nella guerra che durò sei giorni e si fermò solo quando finalmente Gerusalemme fu liberata. Nei giorni seguenti, assistette all’arrivo di migliaia di profughi che erano stati cacciati dai paesi arabi, fra questi molti provenivano dalla Libia e anche dalla sua città natale, sicuramente c’erano parenti e amici.
Yossef amava lo sport e praticava il sollevamento pesi, aveva vinto molti tornei importanti e a 37 anni fu convocato per partecipare alle olimpiadi di Monaco di Baviera come ultima possibilità per un atleta della sua età. Immaginate come potesse sentirsi orgoglioso di prendere parte ai giochi olimpici in Germania, il Paese che pochi decenni prima aveva cercato di annientare il suo popolo. Si sarebbe impegnato al massimo per realizzare il sogno di ogni atleta del mondo, sentire l’inno del proprio paese, in questo caso le note del Atikva. Con questa speranza abbracciò energicamente la moglie e baciò teneramente le figlie prima di imbarcarsi con i compagni per la nuova avventura.
Ma le cose si erano subito messe male, durante una gara si fece male e sarebbe dovuto rientrare subito in Israele per essere operato. Per muoversi era costretto a usare le stampelle e stava spesso relegato nel suo alloggio della cittadella olimpica a riposare. Poi un giorno di colpo, si ritrovò in un incubo, nella stanza entrarono terroristi palestinesi armati. Ma Yossef non ebbe paura e d’istinto li affrontò, così come aveva imparato a fare con gli arabi da ragazzino a Bengasi. Non ci pensò due volte a menar le mani, ma questa volta erano armati e lo ferirono e torturarono a morte.
Il resto è storia, gli assassini in quei giorni del settembre del 1972 uccisero undici atleti israeliani, le olimpiadi continuarono come se niente fosse e mai nessuno onorò la loro memoria fuori dai confini di Israele.
Il padre di Yossi rilasciò un’intervista alla Rai. Mi ha colpito profondamente la forza di quest’uomo che aveva appena perso un figlio e la sua dignità nel dolore. Si esprimeva in un italiano perfetto, con una kippà nera in capo, ricordava la sua vita precedente in Libia rivendicando il suo amore per Israele. Non avrebbe mai abbandonato quella terra per nessuna cosa al mondo, nemmeno per la perdita di un figlio.
Le riprese televisive mostravano la tipica casa della periferia di Tel Aviv che poteva essere benissimo l’abitazione di un mio parente. Ho provato una forte emozione a vedere le immagini di quella famiglia colpita dalla tragedia e ho pensato che potesse essere quella di mio zio che dalla Libia era emigrato in Israele nel ’52 e abitava a Bat Yam.