Andare ad Auschwitz in inverno ha come primo effetto quello
di chiarire il termine “sopravvissuto”. Spesso lo si dà per scontato,
quasi lo si istituzionalizza, abituati ormai a sentirlo nei film o a leggerlo
sui sottopancia delle interviste. Non è così: non c’è nulla di lasciato al caso
e ce ne accorgiamo tutti non appena si mette piede fuori dal pullman.
Tutto è bianco, ma opaco e incorporeo, non si vede nulla a
cento metri di distanza. La camminata che ci separa da Auschwitz-Birkenau non è
qualcosa che si dimentica facilmente. Assenza di vita, ecco cos’è: le piante
che circondano lo sterrato sono secche e il freddo di Cracovia non è minimamente
paragonabile a ciò che si sente lì. Ti entra nelle ossa e non se ne va.
Entriamo nel campo, una landa desolata circondata da fili
spinati, con ogni tanto qualche vedetta di legno. É surreale, se ne accorgono
anche i ragazzi delle scuole, che si guardano intorno, increduli.
Lo storico Marcello Pezzetti e la reduce Andra Bucci
radunano la folla e cominciano a raccontare, davanti a uno dei carri bestiame
che trasportava uomini, donne e bambini verso l’inferno. Un conto è vederlo in
televisione, un altro è sentire da un testimone, guardarsi intorno, osservare
le immagini esplicative portate e mostrate da Pezzetti; in quel momento ci si
rende conto che è tutto vero. Non perché lo si dubitasse, ma un fatto così
assurdo può essere davvero reso proprio solo avendo la verità davanti agli
occhi. É accaduto, quindi può riaccadere.
Intervistiamo Andra Bucci, una vera forza della natura.
Intanto il gruppo va, lo guardiamo camminare, da lontano: chi arranca, chi
muove gli arti per riscaldarli, chi non ce la fa. Coperti a strati, dalla testa
ai piedi. La mente corre a loro, ai deportati, con il pigiama a righe.
Denutriti, maltrattati, infreddoliti, devastati nell’animo.
Continuiamo a camminare, per poi fermarci su uno spiazzale,
dove continua il racconto storico. Una volta finito, la rappresentanza Rom e
Sinti canta il proprio inno, poi gli Ebrei i Salmi di David. Sembra “Train
de Vie”, e capisci perché nel film Shlomo li definiva
“fratelli”.
Si va in una baracca. I deportati dormivano su assi di legno
dove ci sarebbero state al massimo tre persone, invece erano otto, a volte
anche dieci.
Ci spostiamo in pullman, pausa pranzo, poi riprendiamo alla
volta del campo di Auschwitz 1.
“Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.
Questa l’incommentabile scritta all’entrata.
Auschwitz 1 è diventata di fatto un museo. Alcune delle
baracche di mattoni sono state trasformate in esposizioni. Sale con centinaia
di foto di chi non c’è più, divise, capelli, occhiali, indumenti vari. Birkenau
era più spoglia, lasciava spazio all’immaginazione. Qui invece la verità arriva
dritta in faccia. Non si sa se faccia più male questo o l’altro.
Dopo aver visto tutti gli edifici, c’è la deposizione di una
corona di fiori. Poi si torna indietro per andare verso l’aeroporto.
Nell’aria c’è un senso di compassione, di riscatto, di
voglia di vivere insieme. In aereo si canta, si balla. I Rom-Sinti intonano le
loro canzoni, accompagnati dal violino, tutti li seguono. Si chiacchiera tra
sconosciuti, ci si scambiano contatti. La diversità come ricchezza, la vita
come tesoro, la lezione è stata imparata. A questo serve il Giorno della
Memoria.
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