Una nuova cruciale tappa nella corsa delle primarie Usa. Oggi si vota in Idaho, Missouri, Mississippi, North Dakota, Washington e soprattutto Michigan. Ed è il primo appuntamento in cui fronteggiano i due candidati rimasti, Joe Biden e Bernie Sanders (è vero, c’è anche la 38enne deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, ma non ha alcuna chance per la nomination). In ballo ci sono 353 delegati. Da questo mini Super Tuesday si capirà meglio se l’ex vicepresidente Biden ha trovato lo slancio decisivo o se il senatore del Vermont può ancora puntare a essere l’uomo che sfiderà Trump alle presidenziali di novembre. In tal caso Sanders diventerebbe il primo ebreo candidato alla Casa Bianca. Un paradosso.
Infatti Sanders, la cui famiglia ebrea emigrò negli Stati Uniti dalla Polonia, in questa campagna elettorale non ha risparmiato dichiarazioni allarmanti su Israele e sulla linea politica che intende portare avanti, se mai dovesse diventare presidente degli Stati Uniti. Già prima del voto israeliano ha definito Benjamin Netanyahu un «razzista reazionario» e s’è impegnato «a rivalutare» la decisione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme presa da Donald Trump, utilizzando le solite formule ambigue: «Deve essere assicurata l’indipendenza e la sicurezza di Israele, ma non si può ignorare la sofferenza del popolo palestinese». Dichiarazioni definite «scioccanti dal ministro degli Esteri Israel Katz, che ha ricordato come già in un’altra occasione il candidato democratico «abbia parla contro lo Stato di Israele su temi base del credo e della storia ebraici e della nostra sicurezza. La prima volta aveva parlato di Gaza senza comprenderne la realtà, la minaccia, i razzi e quello che fronteggiamo in quanto attaccati dall’Islam radicale, vuole negarci il diritto all’autodifesa». Ancora più duro era stato l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Dannon: «Chiunque definisca il primo ministro israeliano un “razzista” è un bugiardo, un idiota ignorante o entrambe le cose».
Nonostante abbia ripetuto più volte di essere «orgoglioso di essere ebreo», il senatore settantottenne, che da giovane ha vissuto alcuni mesi in un kibbutz, fa molto poco per dimostrarlo. Lo scorso mese era stato criticato per la decisione di disertare l’annuale conferenza dell’American Israel Public Affairs Committee (Aipac). Come motivazione, aveva sostenuto che l’associazione appoggia «leader che esprimono intolleranza verso i palestinesi». Ancora più emblematico il manifesto sull’antisemitismo che Sanders ha pubblicato su Jewish Currents lo scorso 11 novembre. Un testo con alcune prese di posizione chiare e molte inesattezze, da cui emergeva soprattutto un silenzio ingiustificabile sull’antisemitismo endemico della sinistra statunitense. I rapporti tra Stati Uniti e Israele sono storicamente un tema centrale delle primarie e poi delle presidenziali statunitensi. Finora in questa sfida democratica la questione è stata poco dibattuta, se non, appunto, da Sanders, il primo ebreo in corsa per la Casa Bianca che non piace a Israele.