Uno degli ultimi ebrei belgi sopravvissuti all’Olocausto, Henri Kichka, è morto, ieri sera, nella casa di riposo ‘Heureux Séjour’ di Bruxelles all’età di 94 anni per le complicazioni del coronavirus. Dopo un lungo silenzio, nel 2005 ha scritto la sua autobiografia dal titolo “Une adolescence perdue dans la nuit des camps”, con la prefazione dell’avvocato e storico Serge Klarsfeld, noto come “cacciatori di nazisti” per una serie d’indagini nei confronti di criminali tedeschi scampati ai processi intentati nel secondo dopoguerra. La drammatica storica del ‘testimone silenzioso’ di Auschwitz è stata poi raccontata dal figlio artista, Michel Kirchka, nella graphic novel “La seconda generazione. Quello che non ho detto a mio padre”, pubblicata nel 2014 in lingua italiana per i tipi di Rizzoli Lizard, le cui tavole sono diventate oggetto di una mostra che ha girato in Europa ed anche in Italia (Museo Ebraico di Bologna, 2017). Ed è stato proprio il figlio Michel su Facebook a dare la notizia della scomparsa: “Un piccolo e microscopico coronavirus è riuscito dove l’intero esercito nazista aveva fallito. Mio padre era sopravvissuto alla ‘marcia della morte’, ma oggi ha concluso la sua marcia della vita”. Quando Henri Kichka aveva 14 anni, nel maggio del 1940, il Belgio fu invaso dai nazisti. Josek, suo padre, decise che la famiglia doveva lasciare in fretta Bruxelles e quindi presero la direzione del sud della Francia. Tuttavia, furono fermati lungo la strada, e quindi tornarono a Bruxelles ma due anni dopo furono deportati. Henri finì nei lager di Sarkau, Klein-Margersdorf, Tarnowitz e infine a Auschwitz.
Nel gennaio 1945, durante l’avanzata dell’Armata Rossa, Henri Kichka fu costretto alla ‘marcia della morte’, con la quale le SS costrinsero 5.000 deportati a evacuare Auschwitz in condizioni impossibili (ne sopravvissero 750). Tornato alla vita normale, Henri si sposò e mise al mondo quattro figli, ma non raccontò loro la sua terribile storia: la lasciò trasparire attraverso segni che non si potevano nascondere, come il numero impresso sul braccio, riferimenti sporadici, l’interpretazione di ogni successo scolastico dei figli come una rivalsa su Adolf Hitler. Come si evince dal titolo, la testimonianza della SHOAH “La seconda generazione” non è affidata in questo caso alla vittima sopravvissuta ai campi di sterminio, ma a uno dei suoi diretti discendenti, il maggiore dei due figli maschi, che racconta come l’esperienza si sia ripercossa su tutta la vita della sua famiglia e di ciascuno dei suoi famigliari. Michel cresce in una costante atmosfera di rispetto nei confronti del padre e del suo gigantesco estremo passato, nel desiderio di soddisfare le sue aspettative e di non urtare la sua sensibilità divenuta troppo delicata a causa del suo vissuto. Non lascia esplodere, per questi motivi, il naturale conflitto generazionale che oppone un figlio al padre e solo in età matura, dopo il suicidio del fratello minore – “un’altra vittima della SHOAH“, come lo definirà un amico di famiglia – dopo che il padre stesso, ormai pensionato, avrà pubblicato un libro di memorie e si sarà dedicato a rendere testimonianza in conferenze e viaggi della memoria dedicati soprattutto ai giovani, deciderà di rappresentare la propria esperienza della SHOAH: un’esperienza non vissuta direttamente ma filtrata attraverso quella del padre. (Pam/Adnkronos)