Il quarto d’ora di cattiva celebrità non si nega più a nessuno. E i protagonisti lo sanno benissimo. La sfilata dei “No green pass” travestiti da deportati e l’esibizione del Maghen David con il segno giallo degli ebrei tedeschi al tempo di Hitler ha infatti suscitato giusta indignazione. Poi si è dovuto dar seguito con altrettanto giusta e ineludibile indignazione a un incauto elogio, sulla scheda di presentazione on line, per i “Protocolli dei Savi di Sion” da anni e comunque in libera vendita sul web. Ma la questione vera è un’altra, locuzione certo abusata per dirottare ogni dibattito. Tuttavia nel caso della banalizzazione dei crimini nazifascisti – con relativa omologazione nelle cronache di giornata – il problema è davvero diverso, e anche molto meno complicato. Infatti la rimozione di certe memorie molto scomode può essere, anzi è senz’altro peggiore di quel ragionare in malafede che di norma definiamo banalizzazione della Shoah. Da Martin Heidegger a L.F. Celine passando per la luna di Wernher Von Braun e la giurisprudenza nazionalsocialista di Carl Schmitt, associazioni fondazioni convegni anniversari e premi vari si sono moltiplicati con preoccupante frequenza. Rimandiamo i lettori al necessario investimento di tempo in rete, e ne garantiamo l’utilità. Nell’assenza di postille chiarificatrici, questi nomi – una parte per il tutto – costituiscono da soli un sigillo di rispettabilità apposto sulla cultura e sulla tecnologia del Terzo Reich hitleriano. Infatti se in rete si trova e si acquista facilmente molta spazzatura libraria, dobbiamo però constatare che almeno bisogna cercarsela per documentazione (caso buono) o per esplicite simpatie. Insomma: se qualcuno si paragona ai deportati e sterminati, passa sui TG e il giorno dopo tutti si indignano con la necessaria attenzione mediatica. Ma quel che deve preoccupare forse di più sono le continue riabilitazioni postume, talvolta inconsapevoli. In Europa e nel mondo durante gli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale una parte dell’alta cultura simpatizzò con il nazismo e con il più visibile dei coevi prodotti italiani, ovvero il fascismo delle leggi razziste. E così ecco il bypass dei volenterosi addetti alla rimozione delle responsabilità storiche. È un tema altamente divisivo che in anni recenti ha saputo approfondire la professoressa Donatella Di Cesare in coraggiosi, dottissimi e documentati interventi sull’odio antiebraico che caratterizza la paludata filosofia di Martin Heidegger. Coraggiosi nel senso stretto dell’aggettivo in quanto le hanno procurato numerose minacce fisiche, e poi forse qualche inimicizia nell’ambiente accademico. Ancora lei con l’affermazione indiscutibile che “L’ultradestra non va normalizzata” pochi giorni fa ha posto la necessaria pietra tombale sul dibattito, a dir poco inappropriato, che si era aperto per i “Protocolli”. Ma si può infine anche esprimere perplessità, a cerimonie concluse, per la decisione di scegliere “Al termine della notte” come tema 2021 per il premio destinato a giovani promesse del giornalismo d’inchiesta? Il premio è davvero benemerito ed è intitolato allo scomparso Roberto Morrione, grande protagonista dell’informazione televisiva non asservita al potere. Riportiamo dunque testualmente:
Ispirati dal romanzo di Louis- Ferdinand Céline, gli organizzatori hanno scelto come tema “Al termine della notte. La transizione nel XXI secolo”.
L.F. Celine, che si annovera tra gli scrittori più importanti del secolo passato, passa alla storia per tre ignobili pamphlet antisemiti, il primo dei quali – “Bagatelle per un massacro” – è del 1937. Senza tradire lo spirito di un’importante iniziativa giornalistica forse si poteva più incisivamente denominare lo stesso tema con “Il colpo contro il portone” (Der Schlag ans Hoftor di Franz Kafka, 1919).