È quasi certamente nata sotto gli auspici e la benevola attenzione delle autorità al vertice della Chiesa cattolica l’iniziativa di promuovere un convegno di tre giornate presso la Pontificia Università Gregoriana. L’obiettivo dichiarato era la prima, precoce valutazione di quanto emerso dopo la completa e definitiva accessibilità delle carte, con la disponibilità potenziale ma infine per così dire operativa di ogni documento prodotto negli anni dal 1939 al 1958. Questa l’intitolazione ufficiale: “Nuovi documenti del pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane. Un dialogo tra storici e teologi.”.
I lavori si sono aperti sotto l’ombra oscura dei fatti accaduti in Israele. Da Yad Vashem non sarebbero potuti arrivare altro che testi scritti. La documentazione risulta formata da milioni di elementi e migliaia di serie archivistiche. Soltanto gli specialisti possono rendersi pienamente conto delle difficoltà implicite nel lavoro dei ricercatori. Non esiste, né potrebbe, un magazzino enorme con centinaia di metri di scaffalature e una porta non più blindata con la scritta “Archivio personale di Sua Santità Pio XII – Accesso riservato agli addetti ai lavori”. Tutto è disperso nelle sedi più svariate –a Roma, in Italia, nel mondo intero– benché certamente una parte decisiva sia ormai pervenuta per il riordinamento e la conservazione presso l’Archivio Apostolico. È consultabile da chiunque, con un minimo di credenziali che ne attestino la competenza, e ovviamente inserendosi in liste di attesa.
L’Università Gregoriana è la massima istituzione didattica del Vaticano nella nostra città. Dunque nei giorni 9, 10, 11 ottobre, alla presenza di un pubblico numeroso, attento e motivato, studiosi e ricercatori hanno dato vita ad un dibattito serrato, che ha messo sotto i riflettori di un confronto ormai non eludibile, la vicenda politica, storica, teologica e umana di un uomo che si trovò nella posizione più difficile – ma anche più sicura de facto atque de jure — per misurare e valutare. Ovvero valutare dall’alto di una responsabilità morale indiscussa la presenza verificabile, nella vicenda tormentata della nostra specie, di uno scontro tra ciò che è ed appare evidentemente il bene, contrapposto a ciò che fu la materializzazione del male assoluto pronto a dominare ovunque.
Come prevedibile, posizioni più o meno apertamente giustificazioniste si sono misurate con testimonianze a carico provenienti da una molteplicità di fonti. Non sembrerebbe da escludere, a lavori conclusi, una dialettica piuttosto animata e vivace tanto tra le gerarchie come tra i laici incaricati del riordino e conservazione. Tecnici degli archivi e storici si sono mossi su sentieri tuttora poco esplorati, ma anche inesplorati del tutto, aperti da documenti non equivocabili. Che la gerarchia, ai livelli più alti, tutto sapesse già nei primi mesi della Seconda guerra mondiale è fatto ormai incontestabile. La materia del contendere è l’analisi e l’interpretazione di quel di procedere che fu poi chiamato il silenzio di papa Pacelli. Allusioni più o meno esplicite, di solito molto caute, comparvero in particolari occasioni, in momenti simbolici. Il termine “ebrei” nella sua nuda evidenza semantica mai fu pronunciata. Vogliono alcuni che ciò fosse dovuto a giusta cautela, al timore di aggravare e peggiorare una situazione di continuo e gravissimo pericolo soprattutto per i soccorritori. E come sappiamo ce ne furono. Cosa ci fosse da peggiorare nella vicenda della Shoah è questione che si può lasciare forse a studiosi di un tempo futuro.
Ma un fatto simbolico e non discutibile resta nella sua cruda evidenza, e ne ricorre l’ottavo decennio. Nelle giornate del 16 e 17 ottobre 1943, sabato e domenica, più di mille ebrei rastrellati a Roma furono messi all’addiaccio nel cortile del Collegio Militare in Via della Lungara, a non molte centinaia di metri dalle finestre del papa nei palazzi apostolici. I nazisti temevano con ogni probabilità parole che non furono dette pubblicamente, o almeno proteste scritte che mai risultarono agli atti. La mattina di lunedì 18 nello scalo ferroviario al Tiburtino furono sigillati i carri bestiame. Destinazione Auschwitz Birkenau, dove furono aperti nelle prime ore del sabato successivo, 23 ottobre 1943. Anche quel che seguì divenne Storia, esplicitamente documentata con la burocratica precisione del campo di sterminio.