170 volumi, 2500 pratiche contenenti le richieste di aiuto rivolte a papa Pio XII da ebrei, battezzati e non, di tutta Europa, dopo l’inizio delle persecuzioni razziali. La serie “Ebrei” dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato è adesso completa e consultabile on line dopo che il 70% era stato reso liberamente accessibile su internet già il 23 giugno scorso. Ne parliamo con il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. “Il primo commento è che è una cosa buona, più notizie si hanno, più documenti sono accessibili, più ci si avvicina alla conoscenza dei fatti. E solo con una conoscenza e un’analisi accurata si potrà arrivare a un’interpretazione che non sia influenzata da pregiudizi e da passioni”. Ma l’archivio pone anche alcuni problemi. “Rispetto ai dati – prosegue Rav Di Segni – messi già a disposizione e che continuano ad essere messi a disposizione, è necessaria una ricerca accurata che analizzi i diversi aspetti del problema. Attualmente sono più le domande delle risposte. Chi sono le persone che si rivolgevano al Vaticano? Erano rimasti ebrei o erano ebrei che avevano abbracciato la religione cattolica? O l’avevano abbracciata i loro familiari? E per questo si sentivano “ingiustamente” perseguitati e chiedevano la protezione del Vaticano? Capire la distribuzione e la tipologia delle domande è molto importante. L’altra questione è cosa faceva effettivamente il Vaticano. Se c’era una procedura burocratica o se c’era un effettivo impegno, anche entusiastico, nel cercare di alleviare le sofferenze delle persone. Se c’era, verso chi era diretto, se c’erano preferenze di situazioni, di religione o altre motivazioni. C’è poi la questione se fosse effettivamente possibile fare qualche cosa. Molto spesso le richieste erano presentate per via diplomatica, ci mettevano settimane per arrivare a destinazione quando gli interessati erano ormai già stati deportati e uccisi. Ci vorrà molto tempo perché i casi sono tanti, cos’è effettivamente successo perché non è sufficiente aprire un file con una domanda che arriva, bisogna vedere tutto il resto”.
Da parte nostra siamo entrati nell’archivio “Ebrei”, consultabile on line e abbiamo scelto a caso qualche file dei 170. Gli archivi non sono in ordine cronologico, ma in ordine alfabetico, qui sorge la prima difficoltà, avremmo magari voluto analizzare un periodo specifico, come quello di Roma Città Aperta. Ed in effetti spiccano le richieste di chi si era convertito al cattolicesimo affinché il Vaticano intervenisse presso la Direzione generale della Demografia e della Razza per farsi riconoscere “non appartenenti alla razza ebraica”. O anche la richiesta di ottenere il visto per espatriare in Brasile dopo aver ottenuto il “certificato di arianità”, dato che molti paesi non accettavano ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Alcune lettere invece vengono dai territori occupati e sono di ebrei che chiedono rifugio sotto l’occupazione nazista a Vichy, in Ungheria, in Austria.
Per quanto riguarda gli ebrei italiani, alcuni si rivolgono al Vaticano per cercare lavoro dopo le leggi del ’39. Emilio Lattes, di Torino, espulso dal posto di assistente all’Istituto Pediatrico Universitario della città, invalido di guerra, chiede di essere raccomandato a qualche istituto tecnico negli Stati Uniti con allegato curriculum. Nella nota a margine scritta a mano si sottolinea che non si è convertito. C’è anche la lettera del 1939, del romano Mosè Zarfati, 31 anni, che si dichiara appartenente alla “razza ebraica” e che ha perso il lavoro come tassista. “Non chiede oboli, ma soltanto lavoro”, si rivolge quindi al “pastore di Dio affinché possa mantenere la sua famiglia”. Una richiesta struggente che illustra le difficoltà della comunità romana negli anni tra il ’38 e il ’43 che termineranno tragicamente con la deportazione durante i nove mesi dell’occupazione.