
Ancora una volta, in occasione di un’importante manifestazione contro la violenza sulle donne, viene completamente dimenticato ciò che è successo in Israele nel corso degli ultimi due anni.
Dimenticate le terribili violenze perpetrate il 7 ottobre, persino quelle testimoniate dai video degli aggressori, nonostante che in questi anni siano stati finalmente resi disponibili i filmati delle aggressioni e le testimonianze di chi è arrivato per primo sui luoghi del disastro. Nonostante che si sarebbe potuta sentire la testimonianza di quel camionista arrivato per primo sul luogo del rave, che racconta delle file di ragazze morte legate agli alberi con le gambe aperte e stuprate con gli strumenti più violenti.
Parole che non dimenticherò mai. E lui che, in attesa dell’arrivo della polizia, decide di staccare i corpi morti e ricomporli, per restituire loro un brandello di dignità. Senza sapere che proprio la sua opera pietosa servirà ai testimoni inviati dalle Nazioni Unite per investigare sugli stupri per negare che lì siano avvenuti. L’ho letto nel rapporto delle Nazioni Unite, che sostengono che ci sono stati sole due o tre stupri “certificati”.
Sono dimenticati pure i racconti delle donne vissute per mesi in ostaggio di Hamas, di quelle donne che hanno avuto la forza di resistere e di tornare, denunciando spesso stupri e abusi sessuali. E lo fanno a testa alta, guardando negli occhi i loro interlocutori, a dimostrazione che neppure quegli orrori hanno distrutto la loro dignità, hanno cancellato il loro coraggio.
Si tratta di stupri che stanno cominciando a denunciare di avere subito anche gli ostaggi liberati di sesso maschile, per i quali, per ragioni storiche e culturali, l’umiliazione è ancora più grave.
Ma il pensiero woke, intrecciato a una buona dose di antisemitismo, ha vinto. Su Israele si tace, perché si considerano più gravi rispetto a queste violenze le sue colpe, cioè il comportamento “coloniale” nei confronti dei palestinesi e la responsabilità del “genocidio” a Gaza. Come se quelle violenze fossero da considerarsi scusabili reazioni del più debole nei confronti del più forte.
A un tale silenzio bisogna aggiungere le accuse di violenze rivolte contro militari e poliziotti israeliani, nei confronti delle prigioniere e dei prigionieri rinchiusi nelle carceri israeliane. Anche se non intendo scendere in particolari, cioè criticare accuse che almeno per ora mi sembrano poco convincenti, si deve ammettere che la situazione è totalmente diversa. Mi limito a osservare che nelle carceri israeliane le telecamere di controllo sono ovunque, che visite della Croce Rossa si susseguono per verificare – giustamente – che i detenuti vivano in condizioni civili, mangino bene e siano curati in caso di malattia. Quindi, se violenze ci sono state, immagino che esse possano essere documentate, denunciate ed eventualmente sanzionate dai tribunali israeliani.
Ben diversa la condizione degli ostaggi, detenuti per anni in umidi e bui nascondigli, senza che ci sia stato alcun controllo sul comportamento dei loro carcerieri.
Una prova ulteriore della manipolazione a cui è sottoposta ogni questione che coinvolge sessualità e procreazione quando si tratta di Israele è Spermopolitica, un libro scritto da tre docenti dell’università di Bologna, Elisa Bosisio, Maddalena Fragnito e Federica Timeto in segno di solidarietà con la resistenza palestinese, il quale tratta di “giustizia riproduttiva da una prospettiva femminista e anticoloniale”. Le autrici confrontano due pratiche di riproduzione assistita: quella dei soldati israeliani, che preparano il seme nel timore di non sopravvivere alla guerra, e il contrabbando del seme dei prigionieri palestinesi dalle carceri con mezzi di fortuna. Lo sperma dei soldati israeliani, impiegato successivamente anche in caso di morte, sarebbe solo un mezzo, scrivono le tre autrici, per rafforzare il suprematismo coloniale, mentre la raccolta clandestina dello sperma dei prigionieri palestinesi, invece, libera e romantica, “restituisce giustizia e respiro alla vita palestinese sotto assedio”. Ogni commento è superfluo.













