Per ricordare il massacro di Monaco ’72 a cinquant’anni dalla strage, Shalom ha raccontato le storie degli atleti uccisi dai terroristi di Settembre Nero, di quelli che miracolosamente si sono salvati grazie alla fortuna, non certo all’ingegno di chi avrebbe dovuto proteggerli, e la difficile trattativa tra il governo tedesco e i parenti delle vittime, che chiedevano oltre ad un risarcimento accettabile un’indagine adeguata e l’assunzione delle responsabilità da parte della Germania Federale. In questo mezzo secolo i fatti di Monaco ’72 sono tornati sulle pagine dei giornali per motivi differenti, soprattutto perché al rifiuto sordo ad ogni richiesta, agli 11 atleti israeliani è stato per lunghi anni negato il ricordo. Ci sono alcune parole importanti, dette e negate, che costellano questa storia. Eccone alcune.
Il silenzio
Non possiamo dimenticare certamente che per quasi cinquant’anni il comitato olimpico come i governi di tanti paesi, hanno cercato di smarcarsi dal dovere della memoria del massacro, rifiutando, spesso, di celebrarla in occasione di anniversari ed eventi. Per molti anni non sono bastate le voci dei famigliari degli atleti uccisi da Settembre Nero, degli israeliani e degli ebrei della diaspora che hanno lottato, rimanendo inascoltati, per ricordare le vittime del massacro con un minuto di silenzio ai Giochi olimpici.
Il ricordo tardivo
Soltanto il 23 luglio del 2021, alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo, è arrivato quel ricordo, che ha commosso il mondo e più di tutti, chiaramente, gli israeliani. Un minuto di silenzio che hanno chiesto per quasi 50 anni. Dobbiamo ricordare che proprio loro, gli israeliani, sin dal momento in cui si consumava la strage hanno assistito a chi girava le spalle alle vittime del terribile delitto compiuto verso un paese e un popolo, e a chi ha voluto distogliere lo sguardo dai veri colpevoli, i terroristi palestinesi che avevano scelto le Olimpiadi e l’Europa come campo di battaglia. Proprio quell’Olimpiade che doveva cancellare la memoria di quelle uncinate del ’36 a Monaco, quando i soldati sfilarono facendo il saluto nazista: tornare in Germania per gli israeliani significava affrontare un tabù della storia, ma tutto si è trasformato in un incubo senza risveglio.
Acrobazie
Sin dalle prime ora dopo il massacro, una buona parte della stampa italiana si è impegnata operosamente in acrobazie ideologiche, “equidistanti”, alla ricerca delle “radici” della strage, dunque, di giustificazioni. “I guerriglieri” palestinesi, così chiamavano i terroristi, erano, in sintesi, spinti dalla “disperazione” del loro popolo, come se il massacro fosse una forma di protesta. Quell’idea secondo cui le radici del terrore palestinese portano sempre ad Israele anche nel ’72 tornò con forza in superficie: un male latente, che arriva sino ad oggi. Il papa di allora, Paolo VI, nel suo discorso di condanna della strage pronunciava queste parole: “E poi, andiamo, sì, al di là, ancora, col pensiero. Perché? Quali le cause? E anche queste non possono non rattristarci. Se c’è questa smania di esplodere in simili episodi, è segno che c’è un grande male, una grande sofferenza negli animi, che diventano ciechi e si concedono queste esplosioni di vendetta, di risentimento”. Il massacro, dunque, anche per il pontefice è “segno”, sintomo, della sofferenza dei palestinesi.
Filoarabismo
Una voce fuori dal coro sulla stampa italiana quella di Indro Montanelli, che in un fondo sul Corriere della Sera, metteva in guardia l’opinione pubblica da ciò che chiamava “il lento avvelenamento delle coscienze” con il “subdolo” filoarabismo di allora. Montanelli invitava così l’opinione pubblica a portare sul banco degli imputati il vero responsabile del massacro di Monaco, il terrorismo palestinese “i suoi proprietari, i suoi manutengoli e i suoi complici morali, tra cui ci sono tanti intellettuali europei e nostrani”. Soltanto Israele, secondo lui, avrebbe dovuto valutare e giudicare le responsabilità tedesche. “Se Israele avesse sempre fatto ciò che noi europei ci auguravamo che facesse, – scriveva – a quest’ora non sarebbe che un’immensa Auschwitz”. Montanelli, dunque, si scagliava contro chi cercava le ragioni, in un gioco di equilibrismi, che giustificassero la strage. A tal proposito memorabile l’editoriale di Lia Levi, che sulla prima pagina del numero di Shalom sul massacro scrive che chi chiede agli ebrei di accettare Monaco ’72 “è nostalgico di pogrom, è complice di assassini”.
Ritardo e diniego
Il ritardo all’appuntamento con la storia è arrivato anche ai giorni nostri. A Berlino, poche settimane fa. L’immagine di Olaf Scholz che stringe, seppur visibilmente provato, la mano di Abu Mazen, dopo che il leader dei palestinesi incalzato da un giornalista, ha negato di scusarsi per il massacro di Monaco, di cui lui stesso fu complice, e ha calunniato lo Stato ebraico, resta indelebile. Certo, sono seguiti comunicati e reazioni di sdegno apprezzabili da parte del cancelliere tedesco, ma ciò è avvenuto in ritardo. Perché la storia la scrivono anche le immagini.
Giustizia e vergogna
Gli israeliani e gli ebrei della diaspora hanno chiesto giustizia per mezzo secolo sul massacro di Monaco. Hanno chiesto un’indagine, perché sono ancora tanti i punti oscuri sulle responsabilità della strage. Alcune vedove degli atleti israeliani uccisi hanno speso la loro vita per chiedere la verità. Perché seppur i primi responsabili sono i terroristi di Settembre Nero, la Germania non garantì una sicurezza adeguata alla delegazione israeliana, gestì male l’operazione di salvataggio, e rifiutò la collaborazione di Israele. Ma un primo passo verso una svolta è arrivato proprio ieri, a Berlino durante l’incontro tra il Presidente dello Stato d’Israele Isaac Herzog e il Presidente tedesco Walter – Frank Steinmeier. “Per troppo tempo non abbiamo voluto accettare di condividere le responsabilità: era nostro compito garantire la sicurezza degli atleti israeliani” ha detto Steinmeier, aggiungendo che l’attesa di 50 anni per un accordo sulle richieste degli israeliani “è una vergogna”.