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    Le Olimpiadi, il Giappone, e la sua storia ebraica

    Il 23 luglio a Tokyo inizieranno le Olimpiadi, l’evento sportivo più importante e conosciuto al mondo.  Meno noto, invece, è che il Giappone vanta una significativa storia ebraica, che risale agli inizi del XVI secolo con l’arrivo dei mercanti portoghesi e spagnoli ‘conversos’– gli ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo per sottrarsi all’esilio o alla morte.

     

    Tuttavia i primi ebrei che si stabilirono in terra nipponica arrivarono subito dopo la spedizione navale statunitense al comando del commodoro Matthew Perry, inviata nel 1853 dal governo di Washington per costringere i giapponesi ad aprire i loro porti al commercio con l’Occidente.  Nel 1861 circa 50 tra famiglie ebraiche statunitensi, inglesi e polacche si trasferirono a Yokohama e poi a Kobe, dove, alla fine del 1800, formarono due comunità a maggioranza sefardita e una ashkenazita russo-slava a Nagasaki.

     

    Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il Giappone, pur facendo parte dell’Asse, decise di proteggere i rifugiati ebrei, eludendo i tentativi dei tedeschi di introdurre misure antiebraiche nel Paese nipponico.

     

    Dopo la ‘Notte del Cristalli’ del 9 novembre 1938, evento che segnò l’inizio della fase più violenta della persecuzione antisemita, molti ebrei in fuga dalla Germania nazista si rifugiarono a Shangai, occupata dai giapponesi e considerata un “porto sicuro”, avendo la possibilità di entrare senza visto.  Nonostante le proteste dei tedeschi, grazie all’aiuto del Maggior generale Kiichiro Higuchi furono accolti ventimila ebrei.

     

    Sebbene il Giappone proteggesse i rifugiati, il rilascio dei visti di transito da parte dei diplomatici nipponici sottostava a rigide regole d’immigrazione ed era previsto solo per coloro che potevano provare di essere economicamente autosufficienti.

     

    Nel 1940, il console generale giapponese Chiune Sugihara in missione a Kaunas, in Lituania, paese occupato dai sovietici con l’assenso della Germania, si rifiutò di ubbidire agli ordini del Ministero degli Esteri di Tokyo: “Dovrei disobbedire al mio governo”, spiegò il console, “ma se non lo facessi, disubbidirei a Dio”. Così dal 31 luglio al 28 agosto del 1940, Sugihara ogni giorno, per 29 giorni, firmò lo stesso numero di visti di transito che si facevano in un mese. Grazie ai 2.193 visti il diplomatico salvò più di seimila ebrei, rischiando la vita e sacrificando la sua carriera. Quando il Ministero gli chiese di chiudere il consolato, alla stazione, fin sopra il treno continuò a firmare visti, alcuni in bianco, lanciandoli dal finestrino.

     

    Dopo la missione in Lituania, il console fu assegnato ad altri incarichi diplomatici nella Prussia orientale e poi a Praga, fino a quando non fu rinchiuso in un campo di prigionia sovietico per 18 mesi. Sugihara fu destituito dagli obblighi diplomatici nel 1947. Dal 1960 al 1975 visse e lavorò in Unione Sovietica. Morì a Kamakura il 31 luglio 1986.

     

    La storia di Sugihara oggi è nota soprattutto in Israele, in Giappone, in Lituania e in Polonia.

     

    Il governo giapponese, diversi anni dopo la sua morte, ha celebrato il ricordo del diplomatico nipponico, erigendo un Memoriale in suo onore. Nel 1986 gli fu conferito il premio Nagasaki per la pace.  In Lituania, nella città di Kaunas, è stato eretto un monumento in memoria delle sue azioni. Anche la città israeliana di Netanya, che ha ospitato la maggior parte delle famiglie salvate, gli ha dedicato la strada ‘Rehov Chiune ‘Sempo’ Sugihara (chiamato ‘Sempo’ dai rifugiati ebrei, nome più facile da pronunciare).

     

    Oggi è conosciuto come lo ‘Schindler giapponese’. Nel 1984 fu insignito del titolo di Giusto fra le Nazioni, unico giapponese, il cui nome si trova inciso nel Giardino dei Giusti nel Museo di Yad Vashem a Gerusalemme.

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