I risultati elettorali
I giornali italiani non ne hanno parlato, ma negli scorsi giorni è successa in Libano una cosa per nulla scontata nel mondo islamico: si sono tenute delle elezioni più o meno libere e corrette. Ancora meno scontato è il risultato. Il blocco di Hezbollah e dei suoi alleati, che aveva la maggioranza nel vecchio parlamento (71 seggi su 128) ha perso, riducendosi a 61 seggi. In particolare non ha perso direttamente Hezbollah, che nei suoi quartieri sciiti è blindato e non ha consentito dissensi (qui si sono registrati gli episodi più clamorosi di intimidazioni e violazione dei seggi), ma il suo alleato cristiano, il generale Haiun.
La crisi
Le cause della sconfitta della precedente maggioranza sono chiarissime. Due anni fa c’è stata al porto di Beirut una terribile esplosione, che ha fatto oltre 200 morti, circa 7000 feriti e danni per più di 15 miliardi di euro. E’ chiaro a tutti che il disastro è stato provocato da un deposito illegale di esplosivi di Hezbollah, non dichiarato e tenuto (con scarsa cura) in piano porto civile; il sistema politico è poi collassato, senza riuscire a nominare un nuovo governo funzionante; l’economia è in uno stato disastroso, con grandissime difficoltà nel rifornimento di carburanti e anche di cibo. L’inflazione è devastante: la lira libanese, che nell’ottobre del 2019 si scambiava a 1500 con il dollaro, ha raggiunto nei giorni scorsi quota 32000, perdendo il 95% per cento del suo valore.
La responsabilità
Non c’è bisogno di essere sofisticati analisti politici per capire che la responsabilità è di Hezbollah: uno stato nello stato, con il suo esercito, il suo arsenale sempre crescente per i rifornimenti dell’Iran, la sua politica estera diretta contro Israele, la sua spedizione in Siria, il suo clientelismo, la totale indifferenza per la legalità e gli interessi della popolazione libanese. Molti si sono resi conti che non lasciar controllare il paese a un gruppo terrorista legato a una potenza straniera (l’Iran) danneggia la vita di tutti.
Pace con Israele?
E qualcuno (per esempio il leader druso Jumblatt, politico libanese di lungo corso e di per sé decisamente antisraeliano) incomincia a dire che il Libano non ha ragione di mantenere uno stato di guerra con Israele. Non esistono conflitti territoriali veri (salvo una piccola disputa territoriale sulle “fattorie di Sheba”, rivendicate anche dalla Siria e facilmente risolvibile se ce n’è la volontà), vi sono trattative sulla delimitazione dei confini marittimi, che significano enormi giacimenti di gas. Se ci fosse l’intenzione di trovare un compromesso, il Libano potrebbe cominciare a sfruttare la sua parte, realizzando vantaggi economici essenziali nella sua situazione.
Non è facile.
In realtà non è detto che le elezioni concludano la crisi politica. La costituzione libanese è un edificio barocco che suddivide le cariche a seconda dell’appartenenza religiosa, oltre che politica. Non è affatto detto che si possa costituire presto quel governo di cui il paese ha bisogno per ottenere aiuti internazionali. Nel parlamento libanese attuale vi sono tre campi principali, nessuno dei quali ha la maggioranza: Hezbollah e i suoi alleati, gli oppositori e il “Blocco del cambiamento”, composto da partiti e movimenti con posizioni molto differenziate. E non è affatto certo che Hezbollah accetti di farsi sloggiare dal suo potere senza usare la sua forza armata, che è nettamente superiore a quella dell’esercito. Ma le elezioni sono un segnale. Qualcosa nella politica libanese sta cambiando, non è più così scontato che il paese accetti di continuare ad essere una colonia iraniana, il cui solo scopo è fare da avamposto contro Israele.