È disponibile in libreria il trattato del Talmud “Sukkà” (Capanna) edito da
Giuntina e a cura di Rav Riccardo Shemuel Di Segni, con traduzione in italiano
commentata e testo originale a fronte, note, schede tematiche, un nuova
appendice sulle regole ermeneutiche talmudiche, illustrazioni e postfazione di
rav Adin Even Israel Steinsaltz sulla storia del Talmud. Pubblichiamo di
seguito un estratto dell’introduzione di Rav Riccardo Shemuel Di Segni.
ll tema di questo trattato è la festa di Sukkòt. Questa festa, delle
“capanne”, è la terza, dopo Pèsach e Shavu‘òt, delle tre
feste di pellegrinaggio prescritte dalla Torà, È una festa che dura sette
giorni. Nella sua istituzione biblica questa festa si caratterizza per due
regole principali.
La prima è quella della sukkà, la capanna: Nelle capanne
(sukkòt) risiederete per sette giorni, ogni cittadino in Israele
risiederà nelle capanne. Affinché le vostre generazioni sappiano che ho fatto
dimorare i figli d’Israele nelle capanne (sukkòt) quando li feci uscire dalla
Terra d’Egitto (Lev. 23:42). La regola della capanna consiste nell’obbligo
di trasferirsi nei giorni della festa dalla propria abitazione in una
abitazione temporanea. L’altra regola, quella degli arba‘à minìm, le
quattro specie, è semplicemente prescritta ma non motivata: E prenderete
per voi nel primo giorno il frutto dell’albero di bell’aspetto, rami di palma,
ramo dell’albero dal fogliame fitto e salici di fiume, e gioirete davanti al
Signore vostro Dio per sette giorni (Lev. 23:40).
La regola consiste nel prendere quattro specie vegetali, che la tradizione
specificherà essere un cedro, un ramo di palma, due di salice e tre di mirto,
e agitarle nelle giornate festive. Un’ampia tradizione successiva ha cercato di
interpretare il senso di questa regola, che certamente si basa sul rapporto con
il mondo vegetale e rappresenta l’unione di realtà differenti (che nelle varie
interpretazioni simboliche possono essere le parti anatomiche di un essere
umano, o le componenti di una comunità, o gli aspetti delle manifestazioni
della realtà divina).
La festa di Sukkòt si colloca in un momento particolare
dell’anno, anticipando l’arrivo della attesa stagione delle piogge, e chiude il
ciclo agricolo annuale; nel suo simbolismo comprende un legame con la terra e
l’agricoltura, e un richiamo storico generico al periodo della permanenza nel
deserto. Quindi, per molti aspetti, sottolineati proprio dal simbolo della
capanna, è il momento in cui si riflette sulla debolezza e sulla precarietà
dell’esistenza. Ma quasi paradossalmente è proprio questa l’occasione di
gioire e far festa, confidando nella protezione divina. Effettivamente, quando
esisteva il Santuario e il popolo ebraico convergeva a Gerusalemme
per Sukkòt, quello era il momento in cui si esprimeva la massima gioia
collettiva intorno al Santuario, celebrando con particolare solennità il rito
della libagione dell’acqua, propiziatorio dell’arrivo di una stagione feconda
di pioggia. Inoltre, per prescrizione biblica, Sukkòt era la festa
in cui si offrivano in tutto settanta tori, che nell’interpretazione rabbinica
simboleggiavano i popoli della terra, dando alla festa un significato
universale.
Di tutto questo si occupa il trattato Sukkà. Nel primo capitolo si
parla della costruzione della sukkà: quali siano le sue dimensioni,
altezza massima e minima, base minima, forma; quante pareti debba avere, se
debbano essere complete o se bastino dei pali; come deve essere il tetto; se
possa stare sotto a un’altra struttura o un albero; se si possa usare
una sukkà fatta per scopi differenti dalla festa; con quali
materiali si possa fare il tetto; se si possano consentire spazi vuoti e
materiali non vegetali. Nella esposizione dell’argomento vengono introdotti
alcuni principi legali antichi sulla gestione degli spazi vuoti. Da qui, per
analogia, vengono fatti confronti con regole sulla gestione degli spazi nello
Shabbàt. Il secondo capitolo continua l’esame delle regole sulla sukkà,
con questioni legate alle modalità di costruzione; poi passa a discutere su
come si debba adempiere l’obbligo, quanti pasti vadano consumati e di che tipo,
e chi è esentato dall’obbligo. Nella parte finale, partendo da alcuni esempi
pratici di comportamento si apre una trattazione aggadica che discute il
significato dei segni astrali e le colpe che possono portare a determinate
punizioni.
Esaurito il tema della sukkà, nel terzo capitolo si espone il secondo
precetto della festa di Sukkòt, quello delle quattro specie vegetali. Qui
bisogna identificare quali siano le specie indicate, quanti rami o frutti
debbano essere presi e di quali dimensioni, minime e massime; in quali
condizioni fisiche debbano essere; se debbano essere di proprietà esclusiva o
possano avere altre proprietà e origini; se debbano essere legate insieme o
no; in che modo, dopo averle prese, si adempia il precetto.
Con il quarto capitolo l’attenzione si sposta all’evocazione dei riti ai
tempi in cui esisteva il Santuario, in che modo lo Shabbàt cambiava le regole,
e cosa comportava il passaggio da Sukkòt all’altra festa nell’ottavo
giorno, Sheminì ‘Atzèret. La fine del capitolo divaga sul tema della
bontà e della tzedaqà. Il quinto e ultimo capitolo del trattato,
relativamente breve, continua la narrazione di come veniva celebrata la festa
di Sukkòt quando esisteva il Santuario: erano momenti di gioia
speciale, notturna e diurna; la notte c’era una illuminazione straordinaria; di
giorno una solenne processione accoglieva l’acqua che serviva per la libagione
al suo ingresso nel Santuario, di cui si descrivono suggestivi particolari
architettonici. Si parla dei sacrifici speciali che caratterizzavano la festa,
e dei turni dei kohanìm che nella festa affluivano tutti al
Santuario.
In conclusione, Sukkà è un trattato per molti aspetti tecnico, che
si dedica all’esame di due regole essenziali, ma che ha anche un grande respiro
storico con ricordi di vita vissuta al cuore dell’antica pratica religiosa
ebraica, e che apre ogni tanto delle finestre narrative
e aggadiche suggestive.