Lunga e difficile è la strada che porta da Berlino a Gerusalemme, un percorso in salita che Gershom Scholem racconta nella propria autobiografia intellettuale. Trenta anni fa l’editore Einaudi aveva pubblicato Da Berlino a Gerusalemme a partire dal testo tedesco; oggi lo ripropone tradotto da quello ebraico, ritoccato e implementato dall’autore poco prima di morire, introdotto dalla prefazione di Giulio Busi. Scholem, grande studioso di mistica ebraica, risale alle fonti della propria storia personale e rende conto di una costellazione di personaggi che compongono l’affresco composito e variopinto dell’ebraismo tedesco di inizio secolo. La precoce scelta del sionismo in un ambiente in cui era l’opzione di una minoranza degli ebrei è espressamente culturale, mossa cioè dallo studio delle sorgenti delle tradizioni ebraiche. Il percorso attraversa anni in cui, nella Berlino di Scholem, “sotto l’albero di Natale c’era il ritratto di Theodor Herzl” e il giorno di Kippur “nel noto ristorante situato accanto alla Grande sinagoga […] il maître d’hôtel stava sull’ingresso e si rivolgeva ai clienti vestiti a festa: ‘Per i signori che digiunano si serve nella sala sul retro’“. Scholem è critico degli ardori nazionalistici negli anni della Grande guerra, quando per tanti ebrei di Germania era un punto d’onore mostrare a sé e agli altri di essere i più tedeschi tra i tedeschi. È critico dell’assimilazionismo e scettico nei confronti del comunismo del fratello Werner, che verrà assassinato a Buchenwald nel 1940. Sceglie invece Gerusalemme a metà degli anni venti, dove contribuirà alla fondazione dell’Università ebraica. È da questo momento che Il recupero delle fonti della cultura ebraica e l’aliyà formeranno un sinolo inestricabile.