Amos Oz ci ha abbandonati lasciandoci un vuoto che può essere colmato solo dalle sue storie e dai suoi romanzi. Oz è grande perché scrivendo di sé è riuscito a scrivere anche di Israele e di noi tutti: dell’amore e della tenebra, della gioia e del dolore, dell’infanzia e della morte. In “Una storia di amore e di tenebra” trovai tutto ciò che mi aspettavo da un libro, 627 pagine di scrittura grandiosa, alcune piene di dolore, velatamente ironiche e piene d’amore. È la ricerca del senso delle cose che corre come un filo lungo tutto il libro, anche laddove un senso sembra non esservi, dove a questo dovrebbe sostituirsi l’incomprensione, Oz tenta di trovare una ragione, una giustizia che spieghi il suicido della madre avvenuto quando lui aveva dodici anni. Sullo sfondo un paese giovane ma già tormentato, l’Israele dei primi anni, in cui gli immigrati europei arrivarono portando con sé diverse lingue e tradizioni. Oz, nato Klausner, descrive l’atmosfera di quegli anni, racconta della mamma, Fania, che parlava cinque lingue e del papà bibliotecario dagli occhialetti tondi che ne parlava correttamente undici e che per ragioni politiche e ideologiche insegnarono al figlio solo l’ebraico. Il libro segue un svolgimento non lineare, procedendo per sbalzi in avanti e indietro nel tempo e per continui contrasti. Da una parte Gerusalemme dall’altra l’Europa a cui molti guardavano, con un po’ di nostalgia e rancore. La letteratura di Oz è sempre profonda e sincera ma in questo libro un po’ più che negli altri. Finendo il romanzo mi sembrava di aver perso un amico, venerdì scorso l’ho perso davvero.