“Ricordatemi vivo, se siete capaci”: queste le parole di Vittorio Dan Segre, di cui ricorre in questi giorni il centenario della nascita, a cui le celebrazioni postume non piacevano. Diplomatico, scrittore, giornalista, docente universitario, è stato tra i fondatori dello Stato di Israele e tra i massimi conoscitori del mondo ebraico. Era un uomo dalle molteplici passioni e interessi, un amico, un saggio a cui chiedere consigli, un marito per Rosetta, un padre per Michael ed Emanuel. Su Vittorio Dan Segre molto è stato scritto e detto. Non può essere diversamente per un uomo che ha vissuto la Storia con la S maiuscola. Shalom ha incontrato il nipote Gabriele, Direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre per offrire un ritratto famigliare e inedito del nonno.
Chi era Vittorio Dan Segre per lei?
Prima ancora di essere un nonno, un mentore, un intellettuale che ha influito sulle mie scelte di vita, è stato un amico, un vero amico con cui potevo confrontarmi nella consapevolezza di avere uno spazio sicuro in cui essere me stesso.
Quali sono i ricordi più profondi che custodisce del nonno?
Da giovane, quando lui era molto attivo, lo vedevo lontano, impegnato e impenetrabile quasi come se fosse su un piedistallo di autorevolezza e di saggezza. Da adulto e maturo vedevo in lui l’uomo più riflessivo. Lì è nato il nostro sodalizio, non soltanto di affetto famigliare, ma di affinità intellettuale e intesa spirituale.
Vittorio Dan Segre si considerava “un ebreo fortunato”. Lei come lo connoterebbe?
Era un uomo autenticamente curioso, senza filtri, per il puro piacere della conoscenza. Quando finiva una conversazione con chiunque – il collega, il professore, il diplomatico, l’artigiano di Govone o lo studente liceale – ringraziava l’interlocutore perché aveva scoperto qualcosa di nuovo. Aveva sete di conoscenza, era aperto al mondo anche più lontano da lui. A 92 anni si sentiva ancora ‘scolaro’ della vita. Non ha mai smesso di studiare, ascoltare e imparare fino ai suoi ultimi giorni.
Vuole raccontare un aneddoto?
Ricordo che qualche anno prima di morire il nonno chiese a mia sorella di prestargli tutti i libri di Harry Potter: voleva comprendere il fenomeno e per quale motivo i giovani fossero così attratti dalle storie della Rowling.
Può spiegare il pensiero del nonno che più caratterizza il suo lavoro e la missione della Fondazione oggi?
Le sue molteplici identità – israeliana, italiana, sabauda, intellettuale, ebraica (e potrei proseguire) – lo mettevano nella condizione costante di cercare una prospettiva ‘altra’. Questa ricerca lo faceva apparire spesso come provocatorio, ma non era manierismo, piuttosto era il tentativo di ragionare sulla complessità che sapeva bene di non riuscire a cogliere nella sua totalità.
Se dovesse intervistare oggi Vittorio Dan Segre cosa gli chiederebbe?
Il suo pensiero su Israele. L’Israele che ha immaginato e contribuito a costruire nel confronto con l’Israele di oggi.
Vorrei chiedergli la sua opinione sul destino della cultura occidentale. Sono passati otto anni da quando è morto: in questo tempo abbiamo assistito a grandi fratture, grandi stress che hanno messo in discussione l’Occidente. Dal 2014 abbiamo vissuto la Brexit, Trump, la pandemia, crisi economiche e sociali, la crescita dei nazionalismi e dei movimenti che si definiscono illiberali. C’è bisogno di una evoluzione nella nostra comprensione dello spazio istituzionale e valoriale dell’Occidente senza la quale i confronti che oggi viviamo rischiano di diventare sempre più violenti.
Un messaggio per il futuro?
La sua intuizione che precedeva i tempi avrebbe avuto modo di scorgere una delle possibili direzioni in cui si potrebbe lavorare per affrontare questa fase di crisi. Sempre con lo sguardo rivolto in avanti: il nonno non è mai stato un risolutore di problemi, ma un visionario. Di visione piuttosto che di soluzioni abbiamo oggi bisogno.