Tra le pietre d’inciampo messe in questi giorni, ve ne sono due che hanno dietro una storia molto particolare. Una storia fatta di delazioni e avidità, ma anche una scoperta quasi casuale che ha portato alla luce come si sia svolta la vicenda. Ma andiamo con ordine.
Lo scorso 25 gennaio, in Salita di San Francesco 7 a Genova, sono state posate le pietre in memoria di Emanuele Cavaglione (nato a Genova nel 1880) e Margherita Segre (nata a Casale Monferrato – Alessandria nel 1893), ebrei genovesi deportati nel 1944 ad Auschwitz, da dove non sono più tornati. A volere fortemente questo ricordo i due nipoti, Paolo e Maurizio Cavaglione.
La ricostruzione di tutti i dettagli è stata realizzata recentemente da Paolo, il quale ha ricollegato le poche nozioni di cui era a conoscenza con le ricerche dello storico Amedeo Osti Guerrazzi, il quale è da anni impegnato con la Fondazione Museo della Shoah nello studio delle storie dei deportati, spesso vittime di delazioni.
«La storia dei miei nonni la conoscevo solo in forma frammentata, visto che mio padre non aveva mai voluto raccontarla interamente – racconta Paolo Cavaglione a Shalom – I tasselli mancanti sono riuscito a raccoglierli quando ho letto il libro “Gli specialisti dell’odio” di Osti Guerrazzi, di cui avevo sentito una recensione alla radio». Da quel momento, a inizio 2021, inizia un fitto contatto tra Cavaglione e Osti Guerrazzi, che permette di capire cosa sia realmente accaduto.
La storia della famiglia Cavaglione durante l’occupazione nazista in Italia è simile a quella di tanti altri ebrei del Paese: dopo anni di discriminazioni e persecuzioni seguiti alle leggi razziali del ’38, diventa necessario nascondersi per evitare le deportazioni nei campi di sterminio.
«Dopo l’8 settembre ’43, mio padre e mio zio fuggirono a piedi sull’Appennino, fino a raggiungere le linee degli Alleati. I miei nonni invece si erano nascosti a Firenze sotto falso nome e avevano affidato la biancheria di casa e i gioielli a una loro impiegata. Questa signora venne però messa in guardia da due vicini di casa, i fratelli Cantalupo, desiderosi di impossessarsi di questi beni: le dissero che i nazisti erano sulle tracce di questi valori, quindi era meglio che fossero loro a conservarli. Lei ingenuamente seguì il consiglio, ma quando capì di essere stata truffata avvisò i miei nonni. Contattarono così questi due fratelli, che avrebbero restituito tutto se loro avessero fatto ritorno a Genova. I miei nonni sospettavano l’inganno, tanto che si recarono a casa di conoscenti (in Salita di San Francesco, appunto). Ma per realizzare la consegna rivelarono l’indirizzo. Così all’appuntamento del 7 marzo 1944 in cui si sarebbe dovuta verificare la restituzione, si presentò un collaborazionista, Bruno De Dominici, citato anche nel libro di Andrea Casazza “La beffa dei vinti”. Per 5mila lire a persona, arrestò e consegnò alle SS i coniugi Cavaglione. Dopo un periodo nel carcere di Marassi, vennero trasferiti a Fossoli e da lì ad Auschwitz, dove furono uccisi il giorno stesso del loro arrivo, il 30 giugno 1944».
Grazie ai testimoni di quell’episodio, nel processo tenutosi nel dopoguerra fu possibile processare i due fratelli delatori, condannati dalla Corte d’assise straordinaria di Genova a dieci anni di reclusione, ma poi liberati in seguito all’amnistia Togliatti del 1946. Proprio gli atti del processo hanno rappresentato per Paolo la fonte da cui trarre le informazioni necessarie, dopo aver scoperto grazie al libro di Osti Guerrazzi il tribunale speciale di riferimento, i cui documenti erano stati solo recentemente desecretati.
«L’opportunità di mettere i nomi dei miei nonni sulle pietre d’inciampo mi garantisce che non saranno dimenticati – aggiunge Paolo Cavaglione – È un piccolo contributo alla Memoria, ma un grande simbolo per la nostra famiglia. La Storia è fatta di vicende collettive e personali. Le prime sono materia degli storici e poco toccano gli individui, finché questi ultimi non sono coinvolti da vicende specifiche: nel mio caso, si è realizzato proprio questo passaggio».
Gli fa eco lo storico che ha contribuito a queste ricerche. «La storia dei Cavaglione costituisce un ulteriore stimolo all’attività della Fondazione Museo della Shoah per dare voce ai singoli – ha dichiarato Osti Guerrazzi a Shalom – Molte famiglie continuano a vivere nell’incertezza di ciò che sia realmente avvenuto ai loro parenti. Il nostro lavoro, che solitamente si svolge con un approccio distaccato, in questa fase si umanizza, acquisisce una dimensione sociale con storie di singoli individui e contribuisce a restituire un pezzo di storia personale. Rappresenta dunque una grande soddisfazione».