“Quest’anno si affacciano in modo piu’ evidente e piu’ forte alcuni segnali, parole e consuetudini che pensavamo di aver buttato dietro le nostre spalle. Sono pero’ per natura una persona ottimista, anche per identita’ culturale, perche’ non c’e’ popolo piu’ positivo di quello ebraico”. Cosi’ all’AGI la presidente della Comunita’ Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, in occasione del Giorno della Memoria. “La memoria e’ sempre stata necessaria per la nostra tradizione ma e’ anche un impegno. Questo clima ci spinge ancora di piu’ a non rinunciare. Anzi – sottolinea – ci obbliga a muoverci ulteriormente e a coinvolgere piu’ persone”. Da persona positiva, Ruth Dureghello ricorda ad esempio con piacere le molte manifestazioni di affetto e solidarieta’ giunte alla Comunita’ in occasione del furto delle ‘pietre di inciampo’ avvenuto qualche mese fa in via Madonna dei Monti a Roma. “In quel caso, abbiamo potuto constatare la vicinanza della gente comune. E proprio a queste persone, ora, chiedo di avere la stessa sensibilita’ e consapevolezza, di far sentire sempre la propria voce a favore del rispetto della Memoria e delle altre Memorie, senza delegare ad altri, senza declinare responsabilita’”. Eppure, allo stadio… “Non dobbiamo parlare solo degli stadi perche’ il fenomeno e’ proprio anche di altri contesti, a partire dai social. E ci tengo a sottolinearlo. Questa societa’ – afferma la presidente – si muove e parla usando a volte il linguaggio piu’ brutto della tifoseria. Ci vorrebbero azioni di promozione culturale e di educazione ancora piu’ incisive. E lo diciamo da tempo. Azioni che partano sicuramente dalle stesse societa’ sportive, nell’ambito delle loro attivita’ formative. E so che alcune di loro lo fanno gia’. Ma non basta, serve anche maggiore impegno da parte della magistratura sportiva e ordinaria: devono sempre piu’ saper riconoscere e distinguere quando si supera il limite. Sarebbero inoltre necessarie maggiori iniziative anche da parte delle istituzioni che sono preposte a controllare ed educare affinche’ tutto questo non accada. E’ evidente che c’e’ una cultura dell’odio che si sta diffondendo, una cultura che ha superato i limiti del consentito e del lecito, e che si e’ quasi legittimata in alcuni contesti. Siamo gia’ decisamente oltre e se vogliamo riprendere la situazione che ci e’ sfuggita di mano dobbiamo avere posizioni ferme, senza nasconderci dietro ai cori che si sentono allo stadio… E si sentono, inutile negare. Non dobbiamo chiudere gli occhi e girare la faccia dall’altra parte”.
Ma questo Paese si e’ davvero cosi’ incattivito? “No, non direi proprio cosi’ – spiega Ruth Dureghello – ma nei momenti in cui c’e’ una sofferenza, questa a volte si rappresenta nei modi piu’ violenti. E spesso si perdono i freni inibitori. Credo proprio ci sia il pericolo di una crisi sociale. Pericolo che ho rappresentato anche al presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante lo scorso incontro. Se non si prendono decisioni importanti che facciano sentire le istituzioni vicine ai cittadini e che in qualche modo favoriscano un dialogo e un accordo, l’incattivimento e l’imbarbarimento sono la strada piu’ facile da prendere”. E il caso Lannutti? “Rileggete il discorso del nostro Presidente della Repubblica Mattarella, quello fatto in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria al Quirinale. Ha dato una bella lezione di civilta’. Basta quello e non aggiungo altro”. Torniamo al linguaggio, alle parole. Durante le operazioni di chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto, e’ stata spesso usata la parola ‘deportazione’ riferendola al trasferimento degli immigrati… “Ci sono parole che e’ difficile portare fuori dal contesto nel quale sono nate – osserva Dureghello – capisco che per rappresentare una sofferenza si possono usare certi termini ma sono convinta che non si possano fare paragoni. Non tanto per il fatto che parliamo di sofferenze diverse ma abbiamo contezza di quali furono le sofferenze di chi fu deportato e sterminato. E se quelle parole continuassimo a usarle riferendole a loro, offenderemmo queste persone che in questo momento stanno soffrendo. Quindi, con grande rispetto e con grande partecipazione verso chi e’ stato portato fuori da quel luogo, fuori da un alloggio e dal contesto in cui viveva, dico attenzione alle banalizzazioni e a decontestualizzare le parole. E’ proprio sulle parole che in questo preciso momento dobbiamo concentrarci. Le parole devono essere usate correttamente e nei giusti contesti altrimenti si fa confusione e si genera tanta ambiguita’”. Ma e’ difficile, ora, essere il presidente della Comunita’ Ebraica di Roma? “La mia e’ una responsabilita’ importante. Non lo e’ solo verso le persone che si riconoscono in questa che e’ la comunita’ piu’ antica d’Europa ma e’ la responsabilita’ di sostenere una diversita’ che in questo Paese e’ sempre stata una ricchezza. E’ la responsabilita’ di mantenere viva la cultura e la religione in cui ci identifichiamo, soprattutto come italiani. Ora, e’ vero, il momento e’ forse fra i piu’ impegnativi. Mantenere il senso di una diversita’ e’ oneroso ma estremamente necessario”. (AGI)