Rav Avraham Alberto Sermoneta da Rosh haShanà sarà il Rabbino Capo della Comunità di Venezia. Shalom lo ha incontrato.
Un rabbino romano al servizio dell’Italia Ebraica da quasi mezzo secolo. Ci parli di lei rav Sermoneta.
Avevo cinque o sei anni, ero legatissimo a mio zio Isacco Sermoneta, uno dei 16 ebrei romani tornati da Auschwitz, dove aveva perso gran parte della famiglia. Con lui andavo tutti i Sabati mattina al Tempio, ha saputo trasmettermi la sua incrollabile fede nel Signore. Era ritornato a Roma e donava tutto il suo cuore amore al Tempio e alla chazanut,, dopo aver supportato con generosità le comunità svizzere di Lugano e Ginevra. È lui che mi ha fatto innamorare di un mondo che è poi diventato il mio, che mi ha fatto sognare la rabbanut. Al Tempio di Sabato eravamo spesso solo due bambini: rav Roberto Della Rocca e io, la sensazione che provavo era di essere tenuto in considerazione dai rabbini e quando passava il Sefer, e loro lo seguivano, mi accorgevo che mi dedicavano uno sguardo e questo era importante per me.
Il Morè Cesare Eliseo è stata una figura significativa per la sua formazione?
Sì, era il Direttore delle scuole ebraiche, quando veniva nella mia classe ad interrogare, tremavano anche i banchi. Con me c’era rav Umberto Piperno, ci faceva domande difficili, noi rispondevamo anche in ebraico; andava poi a riferire i risultati delle mie interrogazioni allo zio Isacco. Dovevo fare bella figura, sentivo la responsabilità di non deludere due grandi uomini.
Con il Rabbino Elio Toaff ebbe un legame molto profondo?
Quando ho fatto il bar mizvà nel 1974 recitai Arvit al Tempio Spagnolo e l’intera Parashà al Tempio Maggiore grazie alle lezioni e alla pazienza del rav Alberto Funaro, così riuscii poi a guadagnarmi per la prima volta il cappello da chazan come era uso all’epoca. ‘Hai letto una bella parashà – mi disse in quel momento rav Toaff – voglio vederti domani mattina al Tempio così metterai nuovamente il talled e i tefillin, voglio sentirti cantare altre volte’. Fu così che la domenica tornai e il lunedì mattina tornai nuovamente e mi mandò a Sefer. Mi regalò la “Bibbia Ebraica” curata da Rav Dario Disegni con una dedica che aumentò il mio entusiasmo e il mio orgoglio.
Come si sono svolti i suoi studi rabbinici?
Mi iscrissi al Collegio Rabbinico e al liceo Scientifico Statale: fu una scelta impegnativa. Occorre essere determinati per trovare l’armonia tra scuola e studi rabbinici ma sono sempre stato convinto di potercela fare. Sono diventato volontario in Comunità molto giovane e non ho mai smesso di avere il desiderio di migliorarmi, di fare chazanut e diventare un giorno rabbino. Ho superato l’esame da Maskil con i mei due cari amici rav Roberto Della Rocca e rav Benedetto Carucci. Sono stato il primo rabbino ad aver insegnato materie ebraiche in una scuola media statale: alla scuola Ugo Foscolo erano iscritti moltissimi ebrei, è stato un progetto significativo per la Comunità.
Bianca Finzi era la Presidente della Comunità di Bologna quando nel 1996 la chiamò e le chiese di diventare Rabbino capo di Bologna, cosa le rimarrà di 25 anni di rabbinato?
Con mia moglie Clelia e i miei figli fummo invitati per trascorrere un fine settimana, l’accoglienza fu di un calore incredibile. Il primo incontro fu con le signore dell’ADEI, quel Sabato al tempio c’era tutta la comunità. Ricordo che Clelia, all’angolo di via Ugo Bassi, si fermò e mi disse: “Se puoi accetta la proposta, è una grande mitzvà”. Accettai. Al mio insediamento partecipò come ospite l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, c’erano moltissimi politici, un gran numero di membri della diocesi di Bologna e dintorni, tutti i rabbini italiani e romani. La Comunità di Bologna è una presenza tangibile nella città, non manca occasione in cui non porti la solidarietà a tutte le istituzioni, una solidarietà che è stata ugualmente portata alla Comunità nei momenti difficili.
In quegli anni era dominante l’idea che il rabbino doveva occuparsi dei solo affari religiosi mentre ho sempre pensato e interpretato il mio ruolo come leader sotto tutti gli aspetti ebraici.
Il rabbino Toaff, quando gli comunicai la mia decisione, all’inizio era diffidente perché conosceva il legame con Roma, ma il mio legame con Roma è rimasto inalterato malgrado la distanza. Nell’ultimo incontro che ebbi con lui, mi diede la berachà e mi raccomandò di continuare ad impegnarmi con la stessa determinazione e lo stesso amore.
In questi 25 anni si sono succeduti 4 presidenti, la Comunità è cresciuta nei numeri e nella partecipazione soprattutto dei giovani grazie l’apertura di un gan e ad una forte tendenza all’accoglienza degli studenti israeliani.
Lascio una Comunità coesa di 160 iscritti con molti giovani che sono andati a vivere all’estero solo in ambienti ebraici, è per me una grande soddisfazione.
La sfida è ora a Venezia.
Avrei potuto aspettare la pensione ma il nostro Maestro Rav Toaff ci ha sempre insegnato che i rabbini non vanno in pensione. Venezia era l’ultima comunità cui pensavo. Per me e per mia moglie sarà nuova vita: “Chi cambia posto, cambia destino” dicono i chachamim. Vorrei riavvicinare gli ebrei veneziani ai loro Templi e al sentimento comunitario. Ogni Bet Hakeneset ha la sua kedushà, vorrei riportare la vita tra i banchi di ogni Tempio, con le loro antiche melodie. Ai turisti far capire il senso del patrimonio culturale, dell’identità della tradizione italiana di cui siamo fieri. Manterrò anche i legami costruiti in questi anni, come ho sempre fatto darò il giusto ruolo a moglie. Clelia ha sempre voluto tenere alta la sua immagine e certamente a Venezia saprà essere un riferimento per le signore e non solo per loro.
Qual è stato il suo primo pensiero per il futuro?
Ringrazio Kadosh Baruch Hu per avermi dato questa opportunità e i miei genitori che mi hanno sempre trasmesso l’amore per la Torà e per l’ebraismo: rispetto per il prossimo, onestà e dignità. Prego il Signore di farci essere ben voluti e graditi dalla maggior parte della Comunità.