Yitrò, suocero di Moshè, avendo sentito dei grandi miracoli che l’Eterno aveva fatto agli israeliti per farli uscire dall’Egitto, venne al Monte Sinai portando con sè la moglie e i figli di Moshè. Il giorno dopo il suo arrivo Yitrò vide che Moshè era il solo a ricevere il popolo e gli chiese perché faceva tutto senza l’aiuto di altri (Shemòt, 18:14-18). Moshè rispose che si metteva a disposizione del popolo che veniva a rivolgersi a Dio (lidròsh E-lokìm), a giudicare le parti in causa e a insegnare i decreti e le leggi divine.
R. Avraham Kroll (Lodz, 1912-1983, Gerusalemme) in Bepikudèkha Asìcha (p. 158) commenta che Yitrò pensava che coloro che si rivolgevano a Moshè lo facessero solo per questioni giudiziarie e per questo motivo era necessario che nominasse altri giudici. Moshè rispose che il popolo non veniva da lui solo per questi motivi, ma anche a rivolgersi a Dio e affinché pregasse per loro. Per questo non era possibile nominare altri.
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) afferma che Moshè rispose che il popolo si rivolgeva a lui per molti motivi diversi. E afferma che così avvenne nella storia del popolo d’Israele con molti neviìm (profeti) ai quali il popolo si rivolgeva per pregare per i malati e per aiutarli a trovare le cose smarrite, come fece Shaùl quando andò dal profeta Shemuèl quando le sua asine andarono smarrite (I, Shemuèl, 9:9).
R. Joseph Beer Soloveichik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 152) spiega i molteplici significati della radice “shafàt” e afferma che non significa solo “giudicare”. L’esempio più evidente che la parolashofèt non significa solo “giudice” lo troviamo nel caso della profetessa Devorà, in relazione alla quale è scritto: “Allora Devorà, moglie di Lapidòt, giudicava Israele e i figli d’Israele venivano da lei per il giudizio” (Shofetìm, 4:4-5). Se la limitata definizione di shofèt come giudice fosse quella appropriata, tutto il racconto di Devorà non avrebbe senso. Devorà dichiarò guerra ai canaaniti, nominò Baràk generale e lo accompagnò personalmente sul campo di battaglia. E dopo la vittoria compose un canto di lode all’Eterno. Devorà era molto di più di un giudice: era un leader, la maestra e l’amica del popolo. Nel cantico si descrive come “madre in Israele” (ibid., 5:7). Il popolo veniva da lei per leadership e per consigli. Lo stesso vale per tutto i shofetìm dei quali si racconta nel libro dei Giudici.
Questo concetto è spiegato bene da r. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) nel suo commento a Devarìm (18:14). Lo shofèt aveva la funzione del re, del leader del popolo, ma la differenza era che, a differenza del re, la carica dello shofèt non era ereditaria. La mitzvà di nominare un re all’entrata del popolo nella terra d’Israele era appunto di nominare uno shofèt, in modo che “La comunità d’Israele non fosse come un gregge senza pastore” (Bemidbàr, 27:17). La nomina di un re ereditario, come tutte le altre nazioni, era una cosa sgradita all’Eterno. R. Sforno paragona le condizioni per la nomina del monarca ereditario elencate dalla Torà, a quelle date dalla Torà nel caso della bella prigioniera di guerra, che viene permessa a certe condizioni per chi non sa resistere alle tentazioni (Devarìm, 21:11). E così nel caso che il popolo avesse insistito a chiedere un monarca ereditario, come avvenne ai tempi di Shemuèl, la Torà elenca le condizioni: che sia una persona adatta, scelta dall’Eterno, che non faccia allontanare il popolo dalla legge e che non sia uno straniero. L’ideale era lo shofèt, una carica non ereditaria, passata da Moshè a Yehoshùa’ e non ai figli di Moshè e che durò per oltre quattrocento anni fino a Shaùl.