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    Parashà di Vaykrà. Il senso morale che viene dalla Torà

    Il terzo libro della Torà inizia con queste parole: “E chiamò Mosè e l’Eterno gli parlò dalla tenda della radunanza dicendo: Parla ai figli d’Israele e dirai a loro: quando un uomo [adàm] tra di voi presenterà un mammifero comekorbàn [sacrificio] all’Eterno, presenterete questo vostro korbàn traendolo dalla mandria e dal gregge”.  

    Da notare come prima cosa che la parola “korbàn”, per mancanza di un termine che in italiano non esiste, è tradotta con “sacrificio”.

    R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento alla Torà afferma che nelle lingue occidentali non abbiamo una parola che esprima il concetto di korbàn. La traduzione comune in tedesco è “opfer” (offerta in italiano) che deriva dal latino “offero” e che viene usato nel senso di sacrificio, con un significato di distruzione che è antitetico al concetto ebraico di korbàn. Anche il termine “offerta” nel suo significato originale non corrisponde al concetto di korbàn, perché l’idea di offerta implica l’esistenza di una richiesta o di un bisogno da parte della persona alla quale viene portata l’offerta. Il concetto di korbàn in ebraico non è da comprendere come una cosa che viene data in regalo perché è usato solo nel contesto dei rapporti tra uomo e Dio, che non ha bisogno di nulla. La radice “krv” in ebraico significa “avvicinarsi” per creare una rapporto più vicino tra due parti. Lo scopo del korbàn è quindi quello di cercare la vicinanza di Dio. Questo concetto viene espresso da re David nei Tehillìm quando dice: “A me giova avvicinarmi [kirvàt E-lokìm] a Dio” (Salmi, 73:28).  

    All’inizio del secondo capitolo di questa parashà invece del termine “adàm”, la Torà usa la parola “nèfesh”: quando una “nèfesh”[persona; lett., anima] offrirà un korbàn farinaceo a Dio il suo korbàn sarà di fior di farina…”(ibid., 2:1). Nel resto della parashà, viene usata per nove volte la parola “nèfesh” e non più la parola “adàm”.

    Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento chiede per quale motivo all’inizio della parashà viene usata la parola “adàm” invece della più comune parola “nèfesh”. Egli risponde citando il Midràsh Vaykrà Rabbà, nel quale i maestri spiegano che la Torà usa la parola “adàm” per insegnare che come Adamo non offrì sacrifici rubati, perché essendo l’unico uomo tutto apparteneva a lui, così chi porterà un korbàn, non potrà portarne uno rubato.

    R. Avraham Leib Scheinbaum di Cleveland, in Peninìm ‘al Ha-Torà (vol. 26) si chiede per quale motivo proprio Adamo viene scelto come esempio per insegnare che è proibito portare come korbàn un animale rubato. Non sarebbe stato più appropriato portare ad esempio qualcuno che avrebbe potuto rubare ma non lo fece?  Per rispondere alla domanda egli cita R. Israel Meir Kagan (Belarus, 1838-1933), detto Chafètz Chayìm dalla sua opera più famosa, che afferma che la Torà usa di proposito la parola “adàm” per insegnarci che come Adamo era sicuro di non usare nulla che appartenesse ad altri, così anche noi nelle nostre attività quotidiane dobbiamo allontanarci da qualunque comportamento che abbia anche la minima traccia di furto.

    A Trieste vi era un funzionario ebreo che lavorava alle Assicurazioni Generali, che insegnò a sua figlia, quando lo venne a visitare in ufficio, che non si poteva usare per uso personale neppure una matita che apparteneva all’azienda. Questo ebreo non aveva mai conosciuto né saputo dell’esistenza di R. Kagan. Aveva però assorbito dai suoi antenati il senso morale che viene dalla Torà.    

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