La parashà inizia con la descrizione della profezia di Avraham nella quale egli vide tre malakhìm (angeli). In questo passo non viene usata la parola malakhìm, bensì anashìm, uomini: “L’Eterno gli apparve al terebinto di Mamrè mentre era seduto (ve-hu yoshèv) all’entrata della tenda nell’ora più calda della giornata. Alzò il suo sguardo e vide tre uomini di fronte a lui…” (Bereshìt, 18:1-2).
Riguardo alla profezia, e a questo passo in particolare, il Maimonide (Cordova, 1138-1204, il Cairo ) scrive: “Abbiamo spiegato che ogni qualvolta viene menzionato che è stato visto un angelo o un angelo ha parlato, questo ha avuto luogo solo in una visione profetica o in un sogno, sia che la cosa sia stata affermata in modo esplicito o meno […]. E non c’è differenza tra quando la Scrittura affermi all’inizio che è stato visto un angelo e quando il profeta all’inizio credeva di aver visto un essere umano e solo alla fine si era reso conto che era un angelo […]. Uno dei saggi, r. Chiyà il Grande, un grande tra i grandi, arrivò a questo principio trattando del testo della Torà in cui è scritto: «L’Eterno gli apparve al terebinto di Mamrè…»” (Guida dei perplessi, II, cap. 42 all’inizio).
Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento fa un’osservazione grammaticale riguardo alla parola “era seduto” che viene letta “yoshèv” anche se è scritta “yashàv” senza la lettera “vav” che indica la vocale “o”. Quando una parola viene scritta in un modo ma letta in modo diverso, i maestri ci hanno insegnato che c’è qualcosa da imparare da entrambe le letture. In questo caso Rashì cita un midràsh che dice: “È scritto yashàv . Questo significa che Avraham voleva alzarsi” Facendo notare che i giudici devo stare seduti quando accettano le testimonianze e quando emettono le sentenze, Rashì continua: “Il Santo Benedetto gli disse: stai seduto; sono Io che sto in piedi; e tu sarai un segno per i tuoi discendenti che nel futuro starò in piedi nell’assemblea dei giudici mentre loro saranno seduti, come è detto: «[Salmo di Assàf] Iddio sta in piedi nell’assemblea divina; [in mezzo ai giudici sentenzia]»” (Tehillìm, 82:1).
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (Bereshìt, p. 115) chiede quale sia il messaggio che Rashì vuole darci. Egli spiega: “Quando riceviamo un dignitario ci alziamo. Il padrone di casa sta alla porta e riceve gli ospiti. Il Santo Benedetto venne a “visitare” Avraham e così Avraham si alzò. Dio gli disse: «Avraham, stai commettendo un errore. Tu credi di essere il padrone di casa ed io l’ospite. È il contrario. Io sono il padrone di casa e tu sei l’ospite. Sono Io che ti ricevo, non nella tua tenda ma nella Mia tenda. Questa è la mia tenda. Non vi è nulla in questa terra che è veramente tuo, perciò rimani seduto»”.
R. Soloveitchik continua: “Lo stesso è vero anche nel tribunale. La Torà non accetta il concetto che una persona può giudicare un altra persona. Come fa un essere umano che è imperfetto come l’accusato, emettere una sentenza nei suoi confronti? [Per questo nella Torà è scritto:] «Il giudizio appartiene a Dio» (Devarìm, 1:17). E con tutto ciò la Torà permette il giudizio fatto dagli uomini perché se gli esseri umani non potessero giudicare i loro simili, vi sarebbe anarchia. Ciò nonostante il giudice deve sempre ricordare che è solo un plenipotenziario: un agente o un messaggero dell’Onnipotente che è il vero giudice. Egli è il padrone, noi siamo solo degli ospiti invitati a sedere mentre Dio, il padrone di casa, resta in piedi”.