La ribellione di Kòrach è descritta nella Torà con queste parole: “Kòrach, figlio di Itzhàr, nipote di Kehàt, pronipote di Levi, prese con se Datàn e Aviràm, figli di Eliàv, e On, figlio di Pèlet, discendenti di Reuvèn, e [insieme] insorsero contro Moshè con duecentocinquanta uomini tra gli israeliti, principi della comunità, membri del consiglio, uomini di fama; si radunarono contro Moshè e contro Aharòn e dissero loro: «Avete preso troppo per voi! Tutti nella comunità sono kedoshìm e l’Eterno è in mezzo a loro; perché dunque vi innalzate sopra l’assemblea dell’Eterno?»” (Bemidbàr, 16:1-3).
R. Mordekhài Hakohen (Safed, 1523-1598, Aleppo) in Siftè Kohèn (p. 339) cita il Midràsh Yalkùt Shim’onì dove è scritto che Kòrach aveva detto che al Monte Sinai l’Eterno aveva dato solo i dieci comandamenti e il resto l’aveva inventato Moshè per consolidare il suo potere e per dare onore ad Aharòn. Con questo Kòrach negava la profezia di Moshè e la tradizione orale.
La ribellione finì in un disastro per Kòrach e i suoi sostenitori. L’episodio viene citato anche nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, cap. 5, 17) dove è detto: “Ogni disputa che avvenga per fini onesti finisce col mantenersi; non così invece delle discussioni che non avvengono per onesti fini. Quale esempio si può citare del primo tipo? Le discussioni tra Hillèl e Shammài. E del secondo tipo? Quelle di Kòrach e di tutto il suo seguito” (trad. di Joseph Colombo).
R. ‘Ovadià da Bertinoro (Bertinoro, 1445-1515, Gerusalemme) spiega che “ogni disputa per fini onesti finisce per mantenersi” significa che i disputanti sopravvivono, mentre Kòrach e i suoi sostenitori, la cui disputa non era per onesti fini, perirono.
R. Avraham Kroll (Lodz, 1912-1983, Gerusalemme) in Bepikudèkha Asìcha (p. 292) si chiede perché è scritto nella mishnà della disputa “di Kòrach e di tutto il suo seguito” e non di Kòrach con Moshè? E risponde che i ribelli erano divisi anche tra di loro.
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 133) afferma che Kòrach accusava Moshè e Aharòn di avere preso tutti i poteri. Egli sbagliava nel definire il rapporto tra leader e seguaci in senso politico. La comunità del patto non è un’entità politica bensì educativa. Il popolo d’Israele non è costituito da sudditi ma da discepoli. Moshè non è passato nella storia come monarca, anche se formalmente lo era. Egli è conosciuto come Moshè rabbenu, il nostro maestro. Moshè non si era elevato al di sopra della comunità. Era la comunità che lo aveva accettato come leader.
R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1886, New York) in Daràsh Moshè (ed. inglese, p. 248) commenta che l’affermazione di Kòrach che tutti nella comunità sono kedoshìm è un argomento usato da coloro che non accettano l’autorità dei maestri di Torà, che sostengono di saperne altrettanto e di non avere bisogno di maestri. In altre parole si tratta di coloro che sostengono la libera interpretazione della Torà senza fare uso della tradizione orale, ovvero degli insegnamenti tramandati da generazione in generazione da Moshè nostro maestro fino ai nostri giorni. Anche la generazione degli israeliti che visse nel deserto pur avendo sentito i due primi comandamenti direttamente dalla Presenza divina, ebbe bisogno degli insegnamenti di Moshè e di Aharòn. In altri tempi vi erano i Sadducei [o i Caraiti], a voler fare a meno della tradizione orale. Al giorno d’oggi chi ritiene di poter fare a meno del Talmud e delle opere halakhiche che lo hanno seguito e che chiunque può esprimere opinioni sulla Torà e sulla halakhà senza tenere conto dei maestri di Torà si pone al di fuori della comunità d’Israele [così come fecero i Sadducei].