In questa parashà Moshè esorta il popolo a seguire le vie dell’Eterno, che “Fa giustizia all’orfano ed alla vedova; ed ama lo straniero, per dargli pane e indumento” (Devarìm, 10:18). E continua dicendo: “E amerete il gher perché anche voi siete stati gherìm in terra d’Egitto” (ibid., 19). Nel Talmud Babilonese (trattato Bavà Metzi’à, 59b) è citato rabbi Eli’ezer il Grande che disse: “La Torà ha ammonito ben trentasei volte su come comportarsi con il gher dicendo «Che siete stati gherìm nella terra d’Egitto»”.
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Sèfer Ha-Mitzvòt (mitzvà 207) scrive: “[Dio] ci ha comandato di amare i gherìm, come è detto «E amerai il gher». E questo nonostante il fatto che il gher sia già compreso nel[lamitzvà comandata al] popolo d’Israele con le parole: «E vorrai il bene del tuo prossimo come per te stesso» perché questo gher [di cui tratta la Torà] è il gher tzèdek (proselita) [che ha gli stessi diritti e doveri come ogni altro israelita].
Poiché [il gher tzèdek] è entrato a fare parte della [comunità che osserva la] nostra Torà, Iddio ha aggiunto amore al suo amore e gli ha riservato una mitzvà in più. Lo stesso vale per la proibizione di non ferire i sentimenti del prossimo (Vaykrà, 25:17) [che vale per tutto Israele e riguardo alla quale vi è una mitzvà in più per il gher tzèdek] come è detto «E non ferire i sentimenti del gher» (Shemòt, 22:20).
Dal linguaggio della Ghemarà è evidente che si è colpevoli di aver ferito i sentimenti del gher [due volte] sia per la proibizione di ferire i suoi sentimenti in quanto nostro prossimo e sia per quella di ferire i suoi sentimenti in quanto gher.
E così pure siamo obbligati ad amare il gher [due volte] sia perché è detto «E vorrai il bene del prossimo come per te stesso», sia perché è detto «E amerete il gher». E questo è chiaro senza alcun dubbio. E non conosco nessuno tra coloro che hanno elencato le [613] mitzvòt [della Torà] che abbia errato in questo; inoltre nella maggior parte dei loro insegnamenti [i maestri] hanno spiegato che Dio ci ha comandato di amare il gher nello stesso modo in cui ci ha comandato di amare Lui stesso, come è detto: «E amerai l’Eterno tuo Dio» e «E amerete il gher»”.
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (Devarìm, p. 89), riguardo alla mitzvà di amare il gher scrive: “L’esperienza della servitù d’Egitto è alla base della moralità dell’ebreo. Se mi chiedessero cosa è che caratterizza la moralità ebraica, risponderei con una sola parola in yiddish: rachmanus. La traduzione con le parole misericordia, compassione, simpatia o empatia non catturano il suo vero significato. Rachmanus si riferisce ad una attitudine eccezionalmente affettuosa e calorosa di una persona nei confronti di un’altra. La parola rahamìm in ebraico deriva da rèchem, grembo, e significa l’amore di una mamma per il suo bambino. Il fatto che in Egitto gli ebrei furono soggetti a ogni tipo di abuso e umiliazione, il fatto che furono trattati come degli oggetti, e non persone, ha generato nel popolo ebraico una speciale sensibilità e affettuosità nei confronti del prossimo. La nostra straordinaria sensibilità nei confronti delle vedove e degli orfani è testimonianza della nostra comprensione e capacità di immedesimarsi nelle sofferenze degli altri. Questo non sarebbe mai successo senza il nostro soggiorno in Egitto. Senza l’esperienza della schiavitù saremmo rimasti grossolanamente insensibili e senza sapere cos’è la sofferenza. Questo è il motivo per cui ogniqualvolta la Torà parla del nostro dovere di rispettare i sentimenti degli altri, particolarmente di coloro che sono soli e indifesi, menziona la nostra servitù in Egitto”.