Recensire un classico è azione ardua. Come si possono recensire l’Odissea, I Promessi Sposi o Uno, nessuno e centomila? È una faccenda scomoda e delicata, simile al compito che spetta al traduttore, diverso nella forma ma simile nella responsabilità. È giudicare qualcosa che si oppone alla valutazione e che soffre la critica come i gatti l’acqua.
Recensire Lettere a Milenadi Kafka pubblicato da Giuntina presenta dunque una doppia difficoltà: in quanto testo tradotto dal tedesco e classico. Ogni lettera mostra una complessità peculiare e personale. Kafka si espone qui, nudo e disarmato, senza le allegorie e le parabole presenti in molti suoi romanzi. Da questo carteggio emerge una storia d’amore complicata, e accanto ad essa una via di fuga rappresentata dalla scrittura e dalla lettura.
Nella primavera del 1920 Kafka soggiorna a Merano, presso la pensione Ottoburg, e qui comincia a scrivere le prime lettere alla giovane traduttrice ceca Milena Jesenkà sposata Pollak. Questa storia sembra l’epilogo di altri racconti, al centro dei quali c’è una giovane generazione di ebrei praghesi attratti da fanciulle cristiane a loro volta attratte dal fascino esercitato da “questi Blender, questi illusionisti, geniali, malinconici, senza patria e nichilisti”.
Ad avere un destino travagliato non sono solo i personaggi che compaiono nelle lettere, ma è il carteggio stesso. Milena, che morirà nel ’44 nel lager di Ravensbrück, consegna l’epistolario prima all’amico Haas a Praga nel ’39, che riuscirà a farlo rimanere illeso alla furia nazista e alla guerra. Per vie traverse le lettere giungono a Londra nel ’46, inviate forse da un’amica di Milena, Staša Jílovská, che compare in diversi passaggi. Haas viene dunque spronato dall’editore Salman Schocken a modificare alcuni passaggi riguardanti l’ebraismo, troppo delicati e inopportuni per un mondo appena uscito dalla Shoah. È il 1952. Le lettere verranno pubblicate integralmente solo nel 1980 presso l’editore Fischer e in Italia con questo volume di Giuntina.
Molti sono i temi affrontati da Kafka: il legame tra malattia e solitudine, l’angoscia, l’estraneità da questo mondo, il nichilismo, la dipendenza dalle proprie origini e il conflitto identitario con le stesse. Questi e altri concetti ammettono parole tedesche ma non italiane, una loro traduzione dunque ne cambierebbe inesorabilmente di significato. L’Heimatlosigkeit, l’apolidia, l’essere senza patria è allo stesso tempo condizione e premessa della scrittura di Kafka. Lo era prima, e lo è a maggior ragione negli anni ’20, periodo storico complesso, foriero di antisemitismo e nazionalismi. Kafka è uno di quegli autori da leggere in diversi periodi della propria vita, perché se ne può ricavare un’interpretazione sempre nuova. Pur non presentando un rimedio ai nostri problemi esistenziali, Kafka sembra essere acanto a noi per sussurrarci: non sentitevi soli.