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    LE UNIVERSITÀ ITALIANE CHIEDONO SCUSA. PERCHÉ PROPRIO ADESSO?

    Diverse istituzioni italiane hanno imboccato una strada alquanto in voga, chiedendo scusa per l’espulsione dei loro docenti e studenti ebrei. “Legge” ad esempio, chiede scusa. Tuttavia, trattandosi di studiosi o, come diceva George Steiner, di studenti, non sembra comprensibile che si scusino alla tedesca prima maniera: “pardon, degli sconsiderati si sono impadroniti del potere e noi li siam venuti dietro”.

    È vero che l’istituzione rimane e le persone fisiche passano, ma è difficile pretermettere il fondamentale insegnamento di uno dei giuristi più grandi del ventesimo secolo, l’ebreo convertito (per diventare cattedratico) Hans Kelsen: se la persona fisica non è un uomo, la persona giuridica non è un superuomo. Gli uomini che siedono ora nei convegni dove ci si scusa non possono né debbono essere neutrali, perché debbono farsi carico (oppure no?) delle difficoltà del giure reso cultura, la c.d. dottrina, per verificarne la congruenza ai tempi ed ai luoghi.

    Le ideologie che, come fortunali impetuosi, hanno spirato per le facoltà di giurisprudenza, facendo tremare le finestre, erano ben marcate: liberalismo, fascismo, comunismo (rectius: egemonia gramsciana). Inoltre, chi si scusa, lo fa perché ritiene d’incarnare l’istituzione ma, consapevole di farlo a nome di chi è morto e sepolto, talvolta si chiede, con coraggio, quali siano le differenze fra le attuali idee e quelle di coloro del cui comportamento si fa ammenda, ovvero, un atto di pressoché spirituale contrizione.

    Oppure ci si scusa, non già delle idee altrui, ma della pusillanimità dell’errante? In questo caso, non essendovi più la coercizione dell’epoca, chi si scusa non può incolpare il suo predecessore, che si trovava in ben altre ambasce.

    Ogni tanto entra in scena, se non altro perché è il suo destino naturale, un convitato di pietra, nelle vesti ambigue di chi è subentrato al posto dell’ebreo cacciato. La quale figura retorica prosegue, non negli atenei ma sulla stampa, dove una così brutta immagine (ebreo) è addolcita dal ricorso ad una perifrasi: d’origine ebraica. Chi è ebreo è calcolatore, infido e cosmopolita, mentre chi è d’origine ha tagliato ogni ponte, e non a caso si continua in modo consapevolmente politeistico a scindere la divinità in due, quella inflessibile e quella longanime.

    Talvolta si accenna che, coloro i quali  subentrarono agli espulsi, lo fecero in modo legittimo, con un concorso per titoli, per chiara fama. Questa e la spiegazione del giurista, la quale apre, però, un ventaglio di questioni che si potranno pure aprire ma che non riusciranno mai ad essere del tutto chiuse: se poniamo il tutto sul piano della legittimità anziché dell’etica, perché scusarsi? Sembra che in Italia soltanto un docente abbia rifiutato il subentro (Massimo Bontempelli) il quale subentro equivaleva ad una pioggia benefica di posizioni accademiche la cui quantità e qualità non erano trascurabili. Ne consegue che, così come si espropriavano i beni materiali degli ebrei, si provvedeva a compiere altrettanto nei riguardi del bene – cattedra.       

    Vi è, poi, una rivisitazione della storia, dove l’interpretazione non può mai essere asettica, in ispecie se fosse un marxista a proporla. Se un accademico del ’38 non partecipò alla delibera di espulsione dei suoi colleghi, possiamo inferirne che si sia trattato di ciò che, nel giure, vien definito a stregua di “comportamento concludente”? Si tratta di un legittimo quesito, al quale va accostata, però, la sua richiesta agli ebrei di ringraziarlo per l’avvenuta espulsione. L’accademico dell’epoca, ora invocato, non pose la questione in termini così netti, ma qualche ebreo così ebbe ad interpretarla.

    Cosa rimane di quegli accademici? Molto, se si considera che il loro nome, com’è giusto e sacrosanto che sia, campeggia ancora nelle citazioni dottrinarie, poco quando il loro nome è storpiato, a dimostrazione di un sostanziale distacco da questa minutaglia terrena. Alcune domande, poi, restano sospese a mezz’aria, come tutte le richieste inevase, quando si chiede di adottare provvedimenti attraverso formule impersonali.

    Vi è poi un elemento imbarazzante, costituito in modo seriore dall’ebreo tout court (israelita, di fede mosaica, d’origine ebraica) ed ora dall’ebreo israeliano, continuamente evocato negli atenei, al quale farebbe riscontro, secondo taluni, la potenza salvifica di alcuni romanzieri israeliani, certamente incolvevoli di alcune disinvolte chiamate in causa. 

    Scusarsi del proprio comportamento è un atto di contrizione, farlo per gli altri, invece, implica l’assunzione di una veste morale superiore a quella dei colpevoli e, in tal guisa, costituisce un atto di legittimo orgoglio. E se chi si scusa fosse ebreo? Sono pochissimi i professori ebrei di materie giuridiche, soprattutto, mancano all’appello, per l’implacabile legge del tempo, i grandi del ’38, alla cui statura non sempre è agevole accostarvisi. Orbene, il cattedratico ebreo che si scusasse per l’espulsione dei docenti ebrei sarebbe difficile da distinguere dal soggetto che si scusasse per il male che gli è stato inflitto. Molto più piana, invece, la posizione dei cattedratici non ebrei (attualmente gli ebrei, dicevamo, sono pochissimi, segnatamente nelle materie ‘nobili’).

    Assumendo che le scuse siano un atto moralmente dovuto, poiché sono proposte dopo che diverse generazioni si sono succedute dal dopoguerra, è ragionevole domandarsi perché le generazioni precedenti (ma successive al dopoguerra) non abbiano sentito il bisogno di compiere un tale atto moralmente dovuto? Bisognerà scusarsi anche per chi era in cattedra, comprendendo sia chi era presente al momento delle leggi razziali sia chi è poi subentrato? Ciò che si conosce ora non è molto diverso da ciò che si conosceva prima; è mutato soltanto il peso fisico dei libri e degli articoli. Sennonché, assunta la natura  eccessiva e anche errata del coinvolgimento delle precedenti generazioni, rimane intatto il quesito: perché ora e non, per dire, negli anni Ottanta?

    Dato che le scuse sono un atto di grande rilievo, gli attuali accademici potrebbero offrirle e gli ebrei (chi? le istituzioni, i discendenti delle vittime?) potrebbero accettarle soltanto se l’atto di contrizione comportasse anche un atto di studio, come si conviene sia agli atenei sia ad una delle molte concezioni dell’etica: arricchendo la propria cultura con l’abbondantissima letteratura esistente in materia, senza nulla escludere, leggendo anche le voci scomode, come quella del rimpianto Giorgio Israel. Se chi si scusa sapesse poco o nulla del periodo delle leggi razziali, oppure, se si fosse informato però latitasse la volontà di attingere quanto acquisito, l’esercizio finirebbe per spostarsi su altre chiavi. D’altronde, il minimo che si possa chiedere ad un accademico è di sapere cercando di sapere. La superficialità, quando di leggi razziali si tratta e quando di àmbiti universitari si tratta, non può far piacere.

    Come farlo in un Paese dove la colpa, per definizione, è sempre della vittima? A questo quesito non siamo noi a dover rispondere, ma chi le scuse, generosmente, le pone in essere. Come si diceva, non è certo un’angheria addossare agli studiosi l’onere di studiare, semmai quello di essere interrogati ma, a chi compie un atto di dolore, specie se lo fa per conto terzi, la penitenza d’informarsi potrebbe costituire una pena non eccessiva, attese le molteplici pene subite dai morti e dai vivi.        

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