Non sono i
“buonisti” – improbabile e moderna definizione degli urlatori razzisti – a dire
che per arginare la radicalizzazione dei musulmani anche in Italia è necessario
e urgente agire su due fronti. Il primo è quello della prevenzione e della
sicurezza, con particolare riguardo alla Rete, il secondo è quello
dell’integrazione. Vi è infatti una caratteristica che sta emergendo
chiaramente: in Italia il fenomeno della radicalizzazione Jihadista fino ad ora
è stata limitata ma esiste invece in aumento l’estremizzazione dell’Islam, è
possibile quindi per alcuni soggetti ‘a rischio’ passare dall’estremizzazione
religiosa al terrorismo con rapidità e senza che sia possibile prevederlo. A
sostenerlo è un intero gruppo di studiosi che, a partire da “Jihadisti
d’Italia, la radicalizzazione islamista nel nostro Paese” di Renzo Guolo –
professore all’università di Padova e giornalista – nei giorni scorsi si è
incontrato in un convegno nella Sala del Refettorio a Palazzo San Macuto.
All’incontro “La radicalizzazione jihadista”, organizzato dal Cespi – centro
studi di politica internazionale – hanno partecipato studiosi e ricercatori che
hanno proposto una molteplicità di temi di riflessione: dalla sicurezza alla
diffusione in rete, dal confronto con le diverse politiche di integrazione ai
possibili differenti profili di un terrorista e di come sia possibile, ma non
automatico, passare da un contesto anche fortemente radicalizzato al terrorismo
e a come si sia modificato il contesto in vari paesi d’Europa anche a partire
dalla sconfitta militare dell’Isis.
In Kossovo le
stime identificano tra i 150 e i 400 foreign fighters di cui la metà sarebbero
donne e minori partiti per accompagnare i mariti e i padri. Nella relazione
proposta da Ervjola Selenica emerge che un terzo sono rimasti in Siria ed un
altro terzo è stato arrestato al rientro in patria. Selenica tratteggia inoltre
la categorie potenzialmente a rischio – sostanzialmente analoghe a quelle di
altri paesi: giovani, disoccupati, con un vuoto di identità ed in cui
l’appartenenza al gruppo è più importante della religiosità del gruppo stesso.
Per Francesco
Farinelli – European Foundation for Democracy – al declino militare dell’Isis
non corrisponde il venir meno della minaccia visto, tra l’altro, la continua
espansione del gruppo in Africa ed Asia. “Ma soprattutto – afferma il
ricercatore – è difficile tratteggiare
un unico profilo di attentatore poiché l’Isis risponde ad una ricerca di
identità in una società liquida e al giovane radicalizzato è sufficiente
accostarsi ad un sito per pensare di essere di fronte al vero Islam”. L’Isis ha infatti dato vita ad una
potentissima macchina mediatica contro l’occidente democratico e sionista che
mira al reclutamento massiccio per offrire uno Stato islamico a tutti gli
islamici del mondo. Un incontro spurio che confligge con la politica di Al
Qaeda che mirava alla creazione di nuclei armati di élite.
Guolo, che al
tema ha dedicato una ricerca pluriennale e vari libri, inizia con una
dichiarazione forte: “L’islamismo – spiega – è l’ultima grande ideologia del
novecento ma l’ideologia islamista
sembra impermeabile alla sua sconfitta militare”. Guolo affronta quindi il processo di
radicalizzazione a partire dall’esperienza di diversi paesi europei a
cominciare dalla Francia. Punto focale della riflessione la diversa storia politica
e, in particolare, la differente vicenda coloniale che da noi non ha creato
periferie-ghetto destinate specificatamente ad immigrati di prima o seconda
generazione. Per la Francia i profili dei giovani radicalizzati hanno
indicatori doppi o tripli rispetto al resto della popolazione in disoccupazione,
scolarità, povertà e denota anche una presenza di autoctoni convertiti. Per la
Gran Bretagna invece il livello di scolarizzazione è più alto. Per l’Italia i
dati indicano tra le 129 e le 130 persone andate a combattere in Siria ed in
Iraq ma non esiste un “profilo tipo” e questo complica l’analisi e le strategie
di sicurezza. Emerge però che dall’Italia siano partiti foreign fighters
mediamente trentenni, di età più alta rispetto agli altri paesi europei, ma che
esiste una tendenza all’abbassamento, che esiste un processo di
radicalizzazione delle donne, e che i radicalizzati vivano per lo più in realtà
di provincia. Dato di estremo interesse è che “ in Italia la pluralità delle
provenienze dei flussi migratori ha funzionato ponendo barriere etniche,
religiose e nazionali alla radicalizzazione ma si tratta di ostacoli destinati
a diminuire con la seconda generazione. L’arretratezza religiosa ha
rappresentato quindi una barriera ma con la contestazione del modello
famigliare da parte delle giovani generazioni la radicalizzazione assume tratti
modernizzanti”.
“Con la così
detta sconfitta militare dello jihadismo siamo entrati in una fase carsica che
rappresenta un problema enorme sia sotto il profilo della sicurezza che su
quello dell’integrazione. Daesh nasce da un matrimonio spurio che produce un
copione occidentale: la volontà di Stato per tutti gli Jihadisti del mondo e prevede un grande numero di simpatizzanti,
su questo terreno la battaglia è culturale, altrimenti il rischio è che carceri
e scuole diventino luoghi di reclutamento”: è Andrea Manciulli ad esordire con
tanta determinazione. Ex deputato Pd e direttore del rapporto sul terrorismo
Jihadista per l’assemblea della Nato Manciulli spiega: “Il tema
della prevenzione non è né di destra né di sinistra, così come la prevenzione
non è di sinistra e la repressione di destra. Servono entrambe, anzi senza la
prevenzione rischiano di essere inefficaci i tentativi di sconfiggere le nuove forme giovanili. Non bisogna
sottovalutare la tendenza del terrorismo ad allargare i fronti e a costruire un
legame transnazionale e globale. Per questo è necessario alzare il livello dei
rapporti internazionali, altrimenti si rischia davvero di arrivare tardi e di
combattere male questa battaglia”. Per Monsignor Vincenzo Paglia, fondatore
della Comunità di Sant’Egidio che è stato di recente nominato al ‘ministero’
vaticano per la famiglia, chiosa: “I giovani radicalizzati sono figli di
un’integrazione fallita” mentre Marco Minniti – ex ministro dell’Interno – sottolinea
l’importanza di avere luoghi di culto pubblici e sostenuti da finanziamenti
trasparenti. Le conclusioni sono affidate al Presidente del Cespi Piero
Fassino: “E’ importante che integrazione e prevenzione siano due canali
paralleli capaci di dialogare tra loro”.