
“Munasterio ‘e Santa Chiara… tengo ‘o core scuro scuro…Ma pecché, pecché ogne sera, penzo a Napule comm’era, penzo a Napule comm’è?!”. Eccola là. La nostalgia dell’emigrante, che rende il mio cuore ancora più scuro delle parole che cantava Roberto Murolo alla fine degli anni del 1940, in pieno dopoguerra. Il problema è che adesso invece siamo in piena guerra e Napoli da qualche giorno ha dimostrato di essere uno dei tanti fronti di questa guerra che è mediatica, culturale, di informazione, etica ed è anche una guerra alla memoria.
La cacciata di alcuni turisti ebrei israeliani da un ristorante è di fatto un atto che offende molte memorie: quella di una città accogliente come Napoli, ma anche quella della tolleranza, della giustizia, della difesa della realtà e della comprensione della complessità della verità. Ed in questo caso Napoli è città simbolo di un paradigma molto più ampio che è la società italiana tutta: una società che in alcuni spazi ha perso la capacità di analisi dei fatti, perché in realtà ha scelto coscientemente di utilizzare i fatti per essere liberticida, faziosa, manipolatrice, volgare e bugiarda. Perché, quando si caccia un ebreo israeliano da un locale pubblico, in nome della ipocrita accusa di essere un genocida verso il popolo palestinese, siamo di fronte al più becero mentire, alla più becera manipolazione, alla più politica delle falsità.
E sarà pure verace e genuina la pasta con i pomodori del piennolo che il ristorante offre nel menù, ma il comportamento non è né genuino, né tantomeno verace in una città come Napoli. In una città che ha sempre saputo accogliere, ma non in senso banale, in senso viscerale e reale, in una città che dovrebbe avere nel proprio DNA il rifiuto della violenza e la difesa della vera libertà: quella difesa che fu il sentimento ispiratore delle Quattro giornate di Napoli nel 1943, della lotta contro l’occupazione nazista da parte della gente comune, del popolo, degli scugnizzi e degli ebrei napoletani.
E già, cara preparatrice degli spaghetti che hai cacciato degli ebrei da tuo locale, forse non sai, non ricordi, non vuoi sapere che tra i partigiani che hanno liberato Napoli dai tedeschi nazisti e dai fascisti c’erano giovani studenti universitari ebrei e qualche padre di famiglia, sempre ebreo e napoletano. Ricordiamo due nomi fra tutti: i fratelli Alberto e Leo Defez z’’l. Quanto è ancora più scuro il mio cuore, come nella canzone di Murolo, quando pensa che oggi la libertà di una locandiera faziosa è stata difesa, ieri, da giovani ebrei napoletani.
Ma i napoletani non sono tutti come quella locandiera, così come non lo sono tutti gli italiani, però il profilo della locandiera andrebbe studiato perché è il profilo del nuovo liberticida e dell’incrocio dell’odio di tante strade. Il nuovo odiatore ha di fatto radici antiche in una militanza libertaria dove l’antisemitismo è presente sotto forma di religiosità cattolica pre Nostra Aetate, di qualche pagina del buon Marx (Karl non Groucho altrimenti avremmo potuto almeno ridere), di qualche falafel da ristorante arabo mangiato male ed interpretato peggio.
Personalmente questi odiatori mi preoccupano molto: sono il rigurgito di un antisemitismo sociale antico che approfitta della guerra israelopalestinese per esprimere qualcosa di profondo ed ancestrale che di fatto è un odio antico. Come i pomodori per gli spaghetti. Peccato però che i pomodori sono arrivati dall’America dopo la sua scoperta fatta da Cristoforo Colombo nel 1492, e lo sa la nostra locandiera che secondo alcuni storici Colombo era un ebreo sefardita? Non c’è altra soluzione se non quella di cacciare i pomodori dalla cucina per renderla davvero libera da ogni “okkupazione americana e sionista”.