C’era una volta il Bund, c’era una volta il bundismo. Poiché ormai in Italia la cultura è per lo più un orpello (come chi invoca un poco ovunque le madeleines proustiane ma s’ingozzerebbe di cornetti surgelati), ma pur sempre un orpello disgiunto dal vizio del ragionamento, si straparla di Bund tacendone la dialettica col sionismo, il che comporta un analogo silenzio sulla salvezza offerta dal sionismo e la via della morte rappresentata dal Bund. Emigrando in Israele gli ebrei dell’Est sarebbero vissuti, rimanendo in Polonia e dintorni a battersi per il socialismo sono finiti nelle camere a gas. Evidentemente i sionisti non erano così sciocchi ed i bundisti non furono così lungimiranti. Questo si chiama due più due, un’operazione elementare ma che in Italia, e forse altrove, non usa più. È possibile comperare un libro sul Bund e trovare che il sionismo è citato solo una volta? E se sì, che significa?
Karl Marx aveva scritto che la storia si presenta due volte, una come tragedia e l’altra come commedia. È il caso del Bund, grande e tragico, generoso ma fallimentare, e del neo bundismo italiano, uno slancio antisionista che non ha il coraggio di dichiararsi, e quindi ricorre ad un dico non dico che richiederebbe un Alan Turing per essere decrittato.
Nel caso del neobundismo, talvolta si evocano Mosé e l’Esodo, con la singolare abilità di descrivere l’epopea del popolo ebraico a stregua di una banda di sfaccendati che si aggirava senza meta per il Medio Oriente: miracoli della decadenza delle scuole, visto che andavano in Israele, e non tanto perché l’avessero trovata in un dépliant, nell’ardua scelta fra le Maldive, Santa Marinella e le Bahamas, bensì perché tale scelta l’aveva fatta KB. Per i neobundisti, quello è un dettaglio ed il diavolo, si sa, si cela nei dettagli. Sennonché, vi è chi non si fa bastare il sinistro tormentone per cui gli ebrei non hanno bisogno della terra, ma ritiene opportuno puntare il dito verso l’invariabilmente orribile politica israeliana, forse contrapposta alla lungimiranza di quella dei suoi vicini, luminosissimo esempio di rispetto dei diritti umani.
Ora, un conto è criticare la politica israeliana – ci mancherebbe – altro è mettere in crisi il diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione, e dato che ciò non è un dettaglio, la dirigenza dell’ebraismo italiano se ne deve interessare, se non vuole essere surrogata da inaudite supplenze. L’horror vacui non è una chimera, se agli onori non dovessero essere sovrapposti gli ingrati oneri.
Israele è per noi una polizza sulla vita, dopo che nel 1943 a Roma gli ebrei sono stati rastrellati casa per casa, messi nei vagoni bestiame, lasciati a disperarsi per un’intera notte e indi gasati, oppure dopo che nel 1982 non si è trovato di meglio che sparare addosso a chi usciva dal Tempio di Roma, come se avessero avuto qualcosa a che fare col conflitto arabo – israeliano. Continuare a leggere intemerate sottili o non sottili, dispiace parecchio, specie se svolte sul dico non dico oppure senza lo sbocco del dibattit. Nessuno scrive che gli italiani non hanno bisogno del territorio oppure che non si è contrari all’esistenza dell’Italia, oppure della Germania, del Paraguay e così via. Da noi non ci sono più dibattiti, e sarebbe da domandarsi il perché. Ricordo ancora quello, memorabile, del 1977, fra Umberto Terracini e Bruno Zevi. Quei giganti non ci sono più, tuttavia, esistono ancora personalità importanti. Chi scrive, dibatta.