«Ora, osserva Cohen, è vero che secondo Kant la “moralità deve essere pensata come una legge” valida “senza eccezione per ogni uomo”, e che quindi non potendo noi essere – come sostiene Kant, quasi avesse appreso questa espressione da un filosofo ebreo e dal Talmud stesso” – “volontari della moralità”, l’unico rapporto che la ragione può intrattenere con la volontà è quello di “imporre a questa una legge universale».
Le differenze e analogie tra Kant e l’ebraismo ci sono, ed è bene analizzarle. Perché forse è vero, tirando in ballo le parole di Hermann Cohen, che «l’ebreo che filosofa si sente sul terreno di Kant come a casa propria». Ed è altrettanto vero, riprendendo Derrida, «che Kant è andato al fondo dell’ebraismo, del suo spirito e della sua anima», avendo pensato, «tutto insieme, come un’unica rivoluzione, ciò che ruota attorno». Un ebraismo, per così dire, inconscio, interiore e tale consanguineità spirituale – sigillata nella Critica della ragion pratica – è quanto Cohen prova a dimostrare in due brevi testi tradotti per la prima volta dalla casa editrice Morcelliana. Il primo scritto risale al 1908 ed è un discorso commemorativo tenuto all’Istituto di Berlino in onore del suo amico Salomon Neumann, «medico di nullatenenti, gratuitamente curati», importante statistico oltre che fondatore dell’Istituto per la Scienza dell’Ebraismo. Il secondo analizza le analogie di cui sopra. Qui si svela una filosofia della religione kantiana che può essere costruita a partire dall’ebraismo. Una religione razionale «ossia pura, morale, valida per tutti gli uomini e per tutti i tempi». Tali relazioni non risalgono soltanto all’etica, in quanto l’ebraismo ha iniziato molto presto a perseguire la sua giustificazione mediante la filosofia, cercando cioè di dare all’etica anche una specie di fondamento logico. Un altro punto fondamentale in cui si ha corrispondenza è sul terreno della ragione e del suo rapporto con la sensibilità. Tanto Kant quanto la filosofia tradizionale ebraica rifiutano l’eudaimonismo, dottrina che vede nella felicità l’unico scopo della vita umana. Il piacere e la felicità sarebbero dunque contrastati dalla ragione, la quale, come insegna Bachjà, riesce a fondare «l’invito della volontà». Molti altri sono i temi su cui Herman Cohen, fondatore della scuola di Marburgo ed esponente del Neokantismo, si sofferma. Cosa si intende con messianismo? Possono forse il dover essere e il male radicale trattati da Kant sovrapporsi a concetti già espressi da studiosi ebrei? Tra punti di connessioni e frizioni evidenti Cohen si muove richiamando prima Maimonide poi Kant. Il primo attraverso la dottrina degli “attributi negativi”, «cioè la dottrina delle qualità di Dio», mediante «il collegamento della negazione con la privazione»; il secondo per mezzo della Critica del Giudizio, in cui il secondo comandamento appare come «il più sublime passo nel libro delle leggi degli ebrei». Buona lettura.