
Daniele Capezzone, giornalista, saggista e politico di lungo corso, è noto per la capacità di leggere i cambiamenti della politica italiana e internazionale con occhi critici e lucidi al contempo. Nel suo ultimo saggio, Trumpisti o Muskisti, comunque “fascisti” (Edizioni Piemme), Capezzone affronta i grandi temi dell’attualità globale, da Trump a Musk, passando per Milei e giungendo in Medio Oriente con Netanyahu, offrendo spunti di riflessione che vanno oltre l’agenda politica italiana. In questa intervista a Shalom l’autore e giornalista approfondisce alcune delle questioni più sensibili del suo saggio, raccontando le coordinate di un mondo in rapido mutamento.
Nelle ultime settimane il conflitto in Medio Oriente è rapidamente cambiato. Potrà realmente funzionare il cosiddetto “Piano Trump”?
Nelle ultime settimane, abbiamo visto parecchi musi lunghi a sinistra. Concedetemi dunque una metafora televisiva per rispondere a questa domanda. Sembra curioso come, se stringiamo l’inquadratura, vediamo una serie di nodi complicatissimi da sciogliere: il disarmo di Hamas, la sicurezza del territorio, i dubbi sulla futura governance. Ma se allarghiamo l’inquadratura, vediamo un’opportunità che non c’era da vent’anni. Io penso che questo sia il momento di guardare alla finestra che si è aperta.
E queste derive “pro palestinesi” che nelle ultime settimane hanno infuocato le piazze? Ora si fermeranno?
Continueranno, e lo testimoniano le agitazioni successive alla firma di Sharm el Sheikh. Occupazioni universitarie, manifestazioni scolastiche che non si capisce bene che obiettivo abbiano, se non continuare a gridare slogan. Molti, in realtà, non erano interessati alla Palestina: era una parola in codice. Altri, in buona fede, si illudono di leggere l’attualità con vecchie categorie. Il piano Trump ha cambiato le coordinate: invece di isolare Israele e Netanyahu, come auspicavano molti in Europa, ha isolato Hamas, coagulando intorno a sé anche la parte maggioritaria del mondo arabo. È un ribaltamento che, tuttavia, in Europa in molti non hanno colto. 22 Paesi, molti dei quali non hanno mai riconosciuto lo Stato d’Israele, tra luglio e agosto hanno sostenuto che Hamas doveva rilasciare gli ostaggi e disarmarsi. Possibile che le cancellerie e i media europei non abbiano saputo dire ciò che la Lega Araba diceva da mesi? L’operazione Trump, congiunta alla pressione militare di Netanyahu, ha prodotto questo risultato.
E il 7 ottobre è stata la scintilla che ha riacceso l’antisemitismo? O è solo un pretesto?
È un impasto di cause. Le condoglianze pure allo Stato ebraico sono durate circa 24-36 ore, già l’8 ottobre la linea era: “Israele non esageri nella rappresaglia”, già in quelle ore si parlava di “risposta sproporzionata”, ancor prima di sapere cosa Israele avrebbe fatto. Poi c’è una verità scomoda: molti si erano abituati a collocare l’antisemitismo nel passato e a destra. Scoprire che oggi esiste anche a sinistra è stato uno shock o un imbarazzo da nascondere.
Il suo ultimo libro (Trumpisti o Muskisti, comunque “fascisti”) mostra come l’etichetta “fascista” venga oggi usata in modo meccanico e in qualsiasi occasione: questo atteggiamento ha effetti sul dibattito democratico?
In copertina ci sono quattro volti — Trump, Netanyahu, Milley, Musk — ma non è un libro pro-Trump. È l’analisi dell’automatismo con cui qualunque destra viene bollata come “fascista” sempre, sia liberale o sociale, tradizionale o tecnologica. Questo rivela infantilismo, e pochezza d’analisi. L’opposizione non costruisce più se stessa ma proietta sull’avversario l’etichetta di fascista. Dunque, apparentemente, questo non serve più a definire l’avversario, ma in realtà serve a definire se stessi. È una coperta di Linus, un modo per darsi un’identità resistenziale. Se non ho argomenti o unità, non entro nel merito: calo il jolly e dico che l’altro è fascista. Così la discussione si chiude.
Abbiamo notato negli ultimi anni che Israele ha forse sacrificato, per poter riportare a casa gli ostaggi e difendersi dal terrorismo, il suo rapporto con la comunicazione. Sarà possibile riabilitarne l’immagine dopo questa guerra?
Ci sono tre livelli di risposta. Netanyahu non ha nemmeno provato a combattere la battaglia dell’immagine, ma forse la sua priorità era semplicemente dimostrare che “mai più” significava davvero “mai più”. Secondo: si dice “ex malo bonum”, anche da un grande male dobbiamo trarre un bene. Questi anni hanno rivelato chi ci circonda: i veri amici, i falsi amici, quelli che si fanno ingannare o che attendono di esserlo. Gli amici delle giornate facili e gli amici delle giornate difficili. Terzo: il compito degli amici di Israele e della libertà è segnalare il vero rischio del nostro tempo che è rappresentato dall’islamismo radicale. Bisogna far capire che per il fondamentalista la Palestina e le capitali europee sono due stadi della stessa partita: vincere là e vincere qua, o perdere là e perdere qua. Bisogna far capire questo anche al cittadino in buona fede. Tuttavia, ponendo le questioni in modo razionale e argomentato troveremo più porte aperte di quanto si immagini. Certo, esiste una “redazione unica”, una macchina mediatica schierata, ma credo che la maggioranza dei cittadini abbia una sensibilità autentica e sia aperta alla comprensione.