Shemi Zarhin è un regista cinematografico israeliano che per la prima volta si cimenta come scrittore di romanzi. Da questa impresa viene fuori “Finché un giorno”, tradotto in Italia dalla casa editrice Spider&Fish. La letteratura, così come il cinema, è la cartina di tornasole di quel fermento culturale tutto israeliano che si nutre di contraddizioni, tendenze divergenti e continue evoluzioni. Questo libro è intenso, richiede dunque una buona dose di attenzione e di analisi non solo perché si situa tra il surreale e il realismo magico ma anche per alcune proprie difficoltà strutturali che rendono la trama ingarbugliata.
Il romanzo si dipana per un arco temporale vasto, richiamando talvolta l’attenzione a fatti precedentemente avvenuti. Una famiglia si muove nella città di Tiberiade negli anni Settanta. Tra conflitti familiari, crisi adolescenziali e bambini traumatizzati dalle conseguenze dei campi di sterminio, non mancano le tensioni tra i diversi schieramenti politici e i lutti di chi piange i parenti morti per la difesa d’Israele. Shlomi è un bambino di sette anni, un po’ sognatore ma diligente, accanto a lui c’è il fratello Hilik che ha fame di parole e libri. Robert è il papà ed è un tipo ingegnoso; la mamma si chiama Ruchama e ama leggere poesie. A poca distanza abita Ella, una bambina compagna di classe di Shlomi figlia di reduci dai campi di sterminio e dunque un po’ problematica. Robert parte per l’Argentina lasciando la famiglia con problemi economici. Ruchama decide così di reinventarsi avviando un’attività di catering. Tra incontri adolescenziali e tragici risvolti di bambini divenuti ormai adulti, la storia continua tra la solitudine di alcuni personaggi, il senso di responsabilità di Shlomi divenuto oramai grande e la speranza in un futuro migliore.