In ebraico la parola sippur indica una storia. Non però una storia da intendere come tentativo di ricostruzione di quello che è accaduto con strumenti scientifici, sul modello dello storico greco Tucidide e di quasi tutta la tradizione storiografia europea, bensì come racconto di vita innanzitutto orale plasmato a partire dai ricordi. Il successo della narrativa israeliana contemporanea, negli ultimi anni sempre più tradotta anche in Italia, ha molto a che vedere con questa concezione di storia. Amos Oz, tanto per limitarsi a uno dei maestri, ha scritto molti sippurim, racconti in cui storia e ricordo si mescolano. Romanzo egiziano, ultimo romanzo della scrittrice Orly Castel-Bloom appena pubblicato in italiano da Giuntina nella traduzione di Shulim Vogelmann, si inserisce pienamente in questo filone. Una prosa che infrange ripetutamente la linearità del racconto, tempi diversi che si intrecciano avvicinando nell’istante della narrazione momenti lontani secoli, uno stile visivo che pone gli oggetti in primo piano, debitore forse degli studi di cinema dell’autrice, obbligano il lettore a divorare una pagina dopo l’altra.
Dal fermento negli anni del falso messia Shabbatai Tzevi agli studi in lingua francese alla scuola ebraica del Cairo, dalle discussioni in kibbutz su Stalin e i processi di Praga, ma anche su Kafka, Gordon e una pace sempre possibile, alle manifestazioni contro re Faruk in Egitto e fino al servizio militare in Israele, quella che prende forma è la storia di una famiglia e, per suo tramite, di un popolo. Sono gli eredi dei sette fratelli Castil, costretti nel 1492 all’esodo dal borgo di Torre de Mormojón, nella Castiglia dei re cattolicissimi, prima verso il Portogallo e poi, tra nuove cacciate, conversioni forzate e pericoli di ogni genere, attraverso il Mediterraneo fino ad approdare sulla spiaggia di Gaza.
In Romanzo egiziano traspare in più punti la consapevolezza di essere parte di una storia unica, e nondimeno – o forse proprio per questo – emerge il desiderio di normalità, quasi di anonimità, vera cifra dell’Israele “con i suoi ladri e le sue prostitute” voluta da Ben Gurion. “Il sionismo non aveva alcun posto nel cuore di Adele. E neppure il kibbutz, né Stalin. Sionismo, comunismo, socialismo erano tutte mosche di cui bisognava liberarsi a colpi di scopa, storielle che dovevano essere spazzate via per far posto alle cose vere della vita: l’amore, il silenzio, la bellezza, un’alimentazione sana e equilibrata (mai esagerata), bei vestiti e, quando era necessario, il che accadeva di tanto in tanto, le medicine”. Nel racconto di vita, il sippur, ogni individuo è che lo voglia o no un anello di una catena sola che unisce alla propria famiglia, ad antenati mai conosciuti e perfino ai bisnipoti che verranno un giorno. Amos Oz che, alla richiesta di indicare una sola parola capace di racchiudere tutta la sua narrativa, sceglieva “famiglie”. Ma anche in questo caso quello che vale per Oz si può estendere a una parte non piccola della letteratura israeliana: le pagine di Orly Castel-Bloom non fanno eccezione.